Diario di bordo

Ho lasciato il diario di bordo in pozzetto e il vento se l’è letto tutto.

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Vento del nord

Il vento del nord aveva iniziato a soffiare presto quella mattina. Dalle montagne arrivavano spruzzi di neve in direzione del mare.
La lattina ruzzolava rumoreggiando lungo la strada, inseguita da alcuni fogli di giornale, una borsa di plastica di un discount, una busta vuota di pop-corn, un mozzicone di sigaretta e una bottiglia di plastica.

La lattina aveva trovato un ostacolo vicino al marciapiede e si era fermata, mentre gli altri continuarono la corsa. La borsa di plastica iniziò a salire vorticosamente facendo evoluzioni repentine e impennate vorticose, ma andò a impigliarsi in un cavo elettrico sospeso e s’intrecciò nelle sue stesse maniche, rimanendo lì a consumarsi per sempre. Due dei tre fogli di giornale, mulinando dolcemente, s’infilarono in un androne nascondendosi dietro il portone, insieme a qualche sparuta foglia; il terzo si librò in alto scegliendo la via del mare, ma cabrando incappò in una pozzanghera e s’impregnò di fango.

La busta di pop-corn, con ancora qualche residuo di mais malamente tostato, che rumoreggiava lievemente nell’armatura argentata, fu spinta senza pietà verso l’apertura di un canale di scolo inabissandosi nei meandri fognari; e da lì si perse ogni traccia. Intanto il mozzicone di sigaretta si accostò, esausto, lungo il marciapiede mettendosi in posizione verticale – simile a una barca all’ancora – ma  rollava troppo e il vento lo spinse in un’apertura tra due scogli; e fu preda di un granchio. La bottiglia di plastica, ormai sola, saltava e rotolava senza sosta, echeggiando come delle allegre nacchere.

Fu a quel punto che la lattina, grazie a uno sbuffo di vento complice, superò l’ostacolo e iniziò a rincorrere la bottiglia di plastica. Tra i due ebbe inizio una disputa senza esclusione di colpi: la bottiglia di plastica conosceva bene il territorio e percorse strade e vicoli non segnati sulle mappe. La lattina, più piccola e aerodinamica, cominciò a guadagnare terreno e dopo alcune curve già le stava alle calcagna, ma a un incrocio la bottiglia andò a sbattere contro un segnale stradale e si mise a ruotare come una trottola. La lattina, approfittando dell’incidente, la sorpassò e si allontanò risuonando come uno steel drum (sapete, quei tamburi metallici caraibici?). La bottiglia, spinta da una nuova folata, iniziò a roteare e rimbalzare rotolando su se stessa all’inseguimento dell’avversaria. La lattina raggiunse la spiaggia, ma la rotazione le procurò un impedimento inaspettato: la sabbia iniziò a penetrarle inesorabilmente dentro l’apertura a strappo appesantendola sempre di più; gli ultimi e faticosi giri la videro terminare la sua corsa a pochi metri dalla battigia. Nel frattempo la bottiglia raggiunse la spiaggia e, giunta all’altezza della lattina, fece una rotazione su se stessa e, felice, si diresse verso il mare, ma un’enorme mano guantata la ghermì stritolandola e lanciandola in un contenitore aperto. Intanto la lattina, terrorizzata, trasudava gocce color ambra. Poi la sorte colpì anche lei: fu afferrata, schiacciata e proiettata nello stesso contenitore.

E il loro spiriti trasmigrarono in altri oggetti.

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Siamo senza…

Siamo senza finimenti e senza sella, scalpitiamo e ci impenniamo al vento. 

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Igloo

Torri di ghiaccio alla deriva.

Cumuli grigi solcano il cielo.

I venti urlano.

I mari ribollono.

Lassù le notti sono lunghe più dei mesi.

Non c’è via di mezzo, non c’è transizione.

I fiori non dormono: o sono vivi o sono morti.

Lassù il freddo ghiaccia anche i pensieri.

Lassù sotto gli igloo.

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Ecco!

Ho navigato nella vastità degli oceani seguendo rotte sconosciute.

Ho sofferto la fame, la sete, il sonno, la solitudine.

Ho imparato a interpretare gli eventi atmosferici.

 Ho imbrigliato i venti, cavalcato le onde, rincorso le nuvole.

Ho imparato a usare la pioggia e il sole.

Ho tessuto vele, ho impalmato corde.

Ho piegato l’acciaio e trasformato il legno.

Ho separato il sale dall’acqua, la pelle dai muscoli, la carne dalle ossa.

 Ho ucciso.

Ho visto gli iceberg, le balene, le orche, gli albatros…

Ho sempre evitato la terraferma e i suoi infidi scogli:

trappole che imprigionano e rendono schiavi.

Ho sempre guardato a prua, là, verso l’orizzonte.

La mia pelle è cotta di sole e di sale. I miei occhi arsi dal mare,

i miei piedi deformi;  sempre in cerca di equilibrio.

Le mie mani piagate da mille ferite.

Adesso le mie membra sono stanche…

Ecco! Un’isola.

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Kamil

I cammelli vennero svegliati dai fischi e dalle grida dei nomadi; le stelle cominciarono a sbiadire, ma Orione s’intravedeva ancora in parte, come se volesse dare un ultimo addio alla Terra.
Una strana luce si addensò a oriente: una specie di lanugine perlata. I giovani, ancora insonnoliti e imbacuccati nei loro mantelli, raccoglievano le ultime cose intorno al bivacco della sera prima. Kamil frustava leggermente il collo di Sovrano che non ne voleva sapere di alzarsi. Mai nome era stato più adatto per quel cammello: aveva un’indolenza e una regalità irritante; masticava continuamente anche senza avere niente in bocca. Kamil a volte lo odiava, ma era una bestia resistente ed era ancora relativamente giovane. Anche Kamil era giovane per essere un cammelliere. La carovana si mosse lentamente verso sud. Un sole bianco iniziò ad affacciarsi da dietro le dune. I cammelli erano irrequieti. Qualcuno si attardò girandosi a guardare quella strana luce che invadeva il mondo.

A metà mattina il Ghibli cominciò a soffiare senza preavviso, cogliendo la carovana di sorpresa in mezzo a un deserto appiattito. Gli uomini e i cammelli avanzavano con difficoltà contro il vento ululante e ficcanaso, mentre le vesti aderivano al corpo come a tante statue di marmo.

Quella duna provvidenziale fu un regalo di Allah. Ripararono infagottati come tanti fantocci privi di vita. Per due giorni e due notti il Ghibli fece sentire il suo potente respiro. E all’alba di ogni nuovo giorno la strana luce perlacea dominava il cielo del deserto. Il terzo giorno il vento sparì. Gli uomini si mossero lentamente scrollandosi di dosso la sabbia che li aveva coperti completamente. Uno di loro era morto durante la notte: il vecchio Aban non ce l’aveva fatta; troppo debole ormai. Anche alcuni cani giacevano distesi privi di vita. L’aria puzzava di morte, mentre i primi avvoltoi cominciarono ad arrivare chissà da dove. C’era dolore nel campo, ma anche sollievo. La tempesta era passata, la vita continuava; c’era merce da consegnare e la carovana riprese il suo viaggio. Kamil era dispiaciuto per la morte del vecchio Aban. Era un tipo strano il vecchio Aban. Se ne stava sempre là, da solo con il suo cammello – ci dormiva a fianco. A volte Kamil gli portava il tè e lui per ringraziarlo gli raccontava vecchie storie.

Era l’alba la carovana aveva ripreso il suo cammino. Kamil spronò Sovrano verso un rilievo poco distante. Aveva intravisto uno strano luccichio appena sopra di esso. Giunto sulla piccola altura guardò verso ovest e gridò: “ Aban! Aban! Torna indietro, Aban!”

Poi si voltò. Una strana luce si addensava a oriente, come una specie di lanugine perlata

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Chinook

“Chinook?… Che vuol dire? Sembra una marca di salmone affumicato“, disse lei.

“E’ un vento, un vento caldo che dal Canada attraversa le praterie del nord America”, rispose lui disteso sul divano, mentre cercava di far funzionare il telecomando battendolo sul ginocchio.

“E che c’entra il vento con quello di cui ti sto parlando?” Disse lei strofinandosi la fronte.

“Niente, mi è balzata in testa la parola e l’ho detta”, rispose lui. L’aveva sentita alla televisione poco prima che lei arrivasse. E stranamente continuava a ronzargli in testa come un elicottero.

“Mah! Mi sa che c’è qualcosa nella tua testa che non va. Dovresti farle una messa a punto. Conosco un buon meccanico dei cervelli se vuoi”, disse lei ironica.

“Non essere spiritosa, c’è poco da sfottere. Guarda te invece. Credi che il mondo sia avvolto dalle fiabe… ”, disse lui cambiando canale continuamente.

“Ma non puoi, improvvisamente uscirtene con una parola che non c’entra niente col discorso che stiamo facendo. E’ assurdo!” Disse lei, incrinando il tono della voce.

“Niente è assurdo. Ho solo dato aria alla mia immaginazione, nient’altro” disse lui, continuando a battere il telecomando sul ginocchio.

“Dai aria alla tua immaginazione e contesti la mia fantasia? Sei un presuntuoso!” Disse lei unendo i lunghi capelli in una coda, mentre lisciandoseli tirava fuori quelli morti.

“Hai ragione…”, rispose lui, agitando il telecomando verso il televisore come un tubo dell’acqua.

“E non darmi ragione… mi fai incavolare di più. Mi dai ragione e lasci le parole sospese solo perché non hai argomenti!” Disse lei mettendosi tra lui e il televisore con le braccia sui fianchi.

“Sì, vabbè… spostati”.

“ Mi sono scocciata dei tuoi silenzi e delle tue mezze parole… guardati, ormai ti sei divanizzato completamente, hai preso pure il colore del divano!” Disse lei, puntandogli un dito contro e rimanendo nella stessa posizione.

“Sei pedante… ” ,

“Sarò pedante, ma tu sei un povero illuso che è convinto di sapere tutto, e sputi fuori parole solo per dimostrare che ne sai più degli altri! Chinook! Chinook un cazzo!”

“Esco…” sbottò lui, alzandosi di scatto, mentre gli incisivi gli martoriavano il labbro inferiore.

“Sì esci, esci, fai bene a uscire brutto stronzo. Anzi, fai una cosa, non tornare mai più! Ne ho piene le tasche della tua erudizione del cazzo! Impotente!”

Lui si girò di scatto e attraversò il corridoio a grandi passi – un nervo ribelle iniziò a pulsargli sull’occhio destro. Aprì lo sgabuzzino e da dentro la cassetta degli attrezzi tirò fuori un grosso martello; tornò sui suoi passi e la trovò in cucina che guardava dentro il frigo; alzò il martello verso l’alto e scattò per colpirla. Un grosso coltello da cucina balenò nella mano di lei, colpendolo ripetutamente al ventre; la sorpresa fu l’ultima cosa che rimase impressa nello sguardo divanizzato di lui.

“Chinook un cazzo!” Gridò lei. Prese il telecomando e glielo ficcò in bocca.

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Preda delle acque

La barca era piccola, troppo piccola. La costa era lontana; là, in fondo, oltre il buio.
O forse no? Forse la costa non c’era, forse non c’era niente oltre quell’oscurità immutabile? Forse c’erano solo voci sorde di disperazione? Bocche aperte prive di suono che chiedevano aiuto. Ma lui come poteva aiutarle? Era preda delle acque. Curvò le spalle alle tenebre intorpidite dalla sua incertezza; sentiva un grosso peso su di sé prodotto da una gravità opprimente. Cercava di ragionare, ma appena gli si formava un concetto logico, una mano diafana glielo ghermiva dalla mente.

Il vento soffiava a vortici insistenti e la barca non riusciva a trovare la rotta; le vele a brandelli creavano forme stridenti, i cui lembi tremavano nell’aria di quella notte eterna e silenziosa.

Era al timone da molte ore e da molte ore non dormiva. O forse erano giorni? Sapeva che se lasciava il timone, la barca si sarebbe capovolta in quel mare nero. Onde gigantesche lo superavano frangendo e spazzando il ponte da poppa a prua in un silenzio assordante. Ogni tanto qualche gorgo maligno ghermiva la barca facendola girare su se stessa. Sentiva freddo, molto freddo. Provò a cantare, ma le parole gli si gelavano sulle labbra appena uscivano dalla bocca frantumandosi ai suoi piedi. Mentre il vento gli strappava pezzi di pelle dal viso e dalle mani trasformandoli in mille coriandoli traslucidi. Finalmente un suono emerse da dietro le tenebre e si fece strada prepotentemente sopra la notte. Invase l’aria; attraversò lo scafo; s’infilò nel suo corpo e s’impossessò della sua coscienza. Si sedette al centro del letto; il telefono continuava a squillare come se avesse fretta di essere ascoltato.

Si alzò e andò a rispondere. Non c’era nessuno dall’altro lato del filo.

Solo l’ululato del vento.

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Un’altra storia

L’Atlantico una distesa d’acqua capricciosa come una donna, che ti ammalia con le sue lusinghe. Ti accarezza con il soffio dell’Aliseo e ti spinge leggero verso la meta, ma improvvisamente tira fuori gli artigli e diventa una fiera aggressiva e pericolosa, con sbuffi traditori e folate micidiali. Ti circonda con dolci colline d’acqua che degradano sotto la chiglia, ma senza preavviso le trasforma in montagne insormontabili e impervie, che si abbattono sullo scafo inesorabilmente, travolgendoti e trasformando il tuo sogno in un necrologio. Ma Anahita, la mia compagna di avventure, mi è stata fedele: non ha belle linee, ed è un po’ goffa, ma nonostante l’età avanzata mi ha condotto dall’altro lato dell’oceano, resistendo e sopportando continue sollecitazioni; reagendo con piglio deciso e lasciando sull’oceano una scia lunga tremila e seicento miglia. Cosa si può chiedere di più a una barca?
Dopo quattro lunghe settimane finalmente la meta: Mont Pelèe fa capolino dietro la foschia, sembra sorridere, un sorriso caraibico fatto di palme che svettano nel cielo azzurro, cosparso di fiocchi di nuvole cotonate; di lunghe spiagge bianche e assolate; di un mare turchese e cristallino abitato da pesci multicolori; del profumo di spezie sconosciute e misteriose; di Steel Band che suonano a ogni angolo di strada e da un’aria calda e accogliente che ti avvolge come in un sogno.
Ho affrontato questa traversata con l’intenzione di superare da solo l’oceano Atlantico e tra episodi piccoli e grandi mi sono aggiudicato il primo round – dopo un incontro duro e senza esclusione di colpi. Ma l’incontro non dura un solo round e sono ancora lontano dalla meta, ci arriverò in serata.
E’ buio, l’entrata è difficoltosa: un dedalo di secche e reef che sulle carte nautiche è definito “cul de sac”, non bisogna conoscere per forza il francese per capire il significato di queste parole: un budello cosparso di boe che segnalano il corridoio d’entrata del porto turistico di Le Marin. La prudenza mi consiglia di aspettare l’alba, l’azzardo mi incita a continuare; ascolto il secondo (sono stanco). Inizio a superare alcune secche seguendo attentamente le boe di segnalazione illuminate da un’intensa luce rossa: una, due, tre , quattro… dov’è la quinta? Quando realizzo l’errore è ormai troppo tardi. Uno stridìo sommerso mi fa accapponare la pelle, Anahita si blocca dando l’ultimo beccheggio in avanti e, arenandosi su un reef, resta immobile circondata da un oscuro silenzio. E’ una sensazione spiacevole, ho sentito la sofferenza della barca fin dentro le mie ossa. Il mare mi ha presentato il conto, calcolando un alto tasso di interessi. Ho abbassato la guardia e ho subìto un KO che mi ha steso al tappeto. Devo rialzarmi prima che finisca il conteggio! Provo a dare motore, prima avanti poi indietro, ma Anahita si appoggia su un lato soffrendo, e io con lei. Piango, mi inginocchio, mi dispero; sento tutto l’universo addosso. L’arbitro continua a contare… sette, otto… è finita! Aspetterò l’alba per chiedere soccorso; un sogno infranto proprio sul finale.
Mont Pelèe non mi sorride più, è avvolto nel buio, le palme, le spiagge bianche, le spezie, il mare turchese, sono scomparse dalla mia fantasia, mi resta solo il vento, caldo e costante… il vento? Che stupido, sono uno stupido! Come ho fatto a non pensarci prima? E’ una manovra rischiosa, ma possibile! Perché non tentare, tanto, male che vada, Anahita non si sposta più di tanto. Armo la randa e tiro su il fiocco e resto in attesa di un buon rinforzo di vento. Ecco! Ora! Cazzo le cime a ferro e Anahita si inclina, e, lentamente, comincia a spostarsi liberandosi dal giogo e portandosi verso acque più profonde. Un urlo liberatore si ripercuote nell’oscurità, sciogliendomi lo stress accumulato fino a pochi minuti prima. Mi sono rialzato prima che l’arbitro finisse di contare, e con un gancio ben piazzato ho abbattuto il mio avversario. Siamo pari!
Fatto l’ormeggio m’incammino sul pontile in cerca di qualcuno con cui parlare dopo tante settimane di silenzio, ma sono le tre di notte e in giro non c’è nessuno. Torno in barca, ma il sonno non arriva. Strano che dopo aver desiderato per giorni di farmi una bella dormita adesso non ci riesca.

Sono a Martinica, Anahita è ormeggiata, adesso riposa, e io veglio…

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