Ali

Anche quella mattina si svegliò presto e la sveglia confermò il suo pensiero: le 04:37. Era da molto ormai che indovinava esattamente l’ora prima di vederla – riusciva a spaccare il minuto. All’inizio gli sembrò un gioco, ma col passare del tempo la cosa lo mise in una strana ansia.

Si alzò a sedere sul letto e istintivamente si portò la mano dietro la schiena: sentiva dolore, un dolore sordo, profondo; andò in bagno e si guardò allo specchio. Erano dieci giorni che non si faceva la barba e cinque che non faceva una doccia, e chissà quanti che non metteva il muso fuori casa. Quella mattina aveva intenzione di uscire, l’aveva deciso esattamente in quell’istante. Il dolore alla schiena persisteva, si girò di lato verso lo specchio per individuare a che altezza si trovasse quell’insistente malessere. Un grido gli si soffocò in gola facendolo appoggiare al lavandino con forza appena prima che cadesse: due strani rigonfiamenti spingevano da sotto il pigiama all’altezza delle scapole. Si tolse la giacca e rimase allibito. Le ali erano ancora piccole, ma qualcosa gli diceva che sarebbero cresciute ancora. Provò a muoverle e con stupore vide che si distendevano e sbattevano lentamente. Si toccò il corpo, spostò oggetti, bevve dell’acqua, aprì la finestra e inspirò profondamente; girò per la casa battendo i piedi e toccando le pareti, alzò il telefono fece un numero a caso chiedendo se fosse l’ufficio postale – mentre la persona dall’altro lato lo investiva di improperi per averlo svegliato. No, non era morto, era vivo, se fosse stato morto non avrebbe avuto tutti i sensi funzionanti. Inoltre il tizio al telefono l’aveva sentito. Quindi…

Adesso che faccio? – Si chiese. Accese il computer e s’inoltrò nei meandri del web alla ricerca di informazione sugli angeli.

Si era fatto buio: aveva passato la giornata a cercare di capire cosa fossero gli angeli, ma le idee erano più confuse di prima. Si guardò allo specchio: le ali avevano raggiunto il massimo della crescita; le punte gli arrivavano fin quasi a terra; le dispiegò e si meravigliò dell’ampiezza delle sue appendici piumate.

Be’, – si disse – adesso che ho le ali potrei anche provare a volare. Salì sul davanzale della finestra e dopo un attimo di esitazione, si lasciò cadere nel vuoto…

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Mi piace la pop-art

Il pullman percorreva la sua linea con la tranquillità di un pullman di linea, o almeno a me così sembrava, in fondo che ne sapevo io di quell’itinerario? Non c’ero mai stato su quel pullman e non avevo nessuna idea di quale fosse il suo percorso. Sapevo che mi doveva portare da qualche parte, ma da che parte, non ne avevo idea.
Guardavo il paesaggio scivolare dietro il finestrino con la mia immagine che si sovrapponeva e ne copriva i particolari, anche se qualcosa mi diceva che poteva essere il contrario. C’era gente sul pullman, non tanta credo; spostavo lo sguardo tra il finestrino e il davanti; dietro non m’importava chi ci fosse, forse non c’era nessuno, chissà.

Mi meravigliò molto l’immagine di quel rimorchiatore che navigava a sud dell’Antartide; mi esplose nel cervello come una bolla d’acqua sulfurea. Avete mai visto esplodere una bolla d’acqua sulfurea? Si gonfia lentamente e poi esplode emettendo del vapore grigio che esala anch’esso lentamente: come il ragù.

Dunque, capii che in qualche modo i due mezzi di trasporto avevano qualcosa in comune, ci fu una specie di metamorfosi anfibia: il pullman che diventava rimorchiatore, o forse era un rimorchiatore travestito da pullman? Non mi soffermai molto sulla cosa, a che serviva?

La tappa era fuori dalla solita rotta, una tappa del tutto eccezionale, ma avevo la sensazione come se ogni tanto, nel suo girovagare, il pullman-rimorchiatore allargasse il suo itinerario, per raggiungere quel posto lontano alla fine del mondo. Fui colto da un raptus di meraviglia che mi attraversò il corpo, come una serie di cerchi di energia intenti a farmi una tomografia. Tirai fuori la digitale e cominciai a scattare, eccitato dalla ghiotta occasione di osservare un luogo che non avrei mai più avuto occasione di rivedere nella mia vita. L’Antartide mi ha sempre affascinato e non mi sarei mai aspettato di visitare un posto così remoto. Il piccolo monitor della digitale mi rimandava le immagini scattate sotto forma di quadri di Andy Warhol. Mi piace la pop-art, ma chiedevo alla digitale solo delle semplici foto, nient’altro. Smanettai un poco per cercare una funzione che mi facesse scattare immagini normali, ma non facevo altro che complicare la situazione. Un moto di rabbia mi invase talmente tanto, che cominciai a sbattere la digitale sul palmo della mano con la speranza che si resettasse da sola e prendesse coscienza di adempiere alle sue normali funzioni. Niente da fare, comunque continuai a scattare, che altro potevo fare?

Il gruppo di viaggiatori scese dal pullman-rimorchiatore e si fermò in mezzo a una strada larga quanto una piccola piazza, con pozzanghere disseminate lungo il percorso costeggiato da palazzi rinascimentali bagnati da una pioggia ormai passata. Io volevo uscire dal gruppo e farmi da solo il giro turistico, ma il tizio – comparso da chissà dove – mi fece segno di seguirlo. Spiegava delle cose al gruppo muovendo una bocca priva di suono. Istintivamente portai l’indice all’orecchio dandogli una serie di scrollatine, ma non successe niente di nuovo, continuavo a non sentire la voce del tizio.

Un campo di calcio coperto dal mare attirò la mia attenzione. Le porte erano al di sopra del livello dell’acqua mentre i giocatori erano sommersi fin sopra i pantaloncini. Rimasi affascinato dalla loro capacità di scartare e fare i passaggi sotto il livello del mare e vidi anche un gol fatto dalla squadra con le casacche rosse e i giocatori che si abbracciavano allegri sguazzando nell’acqua. Cercai d’immortalare il momento con la mia capricciosa digitale, ma continuava a darmi immagini d’arte moderna. In fondo non mi piace il calcio…

Un rombo capriccioso mi fece alzare gli occhi al cielo: il cumulonembo occupava quasi tutto il cielo e mi fece venire i brividi solo al pensiero di cosa potesse accadere in quel momento sotto quel tremendo evento atmosferico, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. Di solito hanno la forma di un fungo atomico, ma quello era diverso. Aveva sì la maestosità e la densità di un cumulonembo, ma era un po’ diverso nella sagoma: aveva punte di vapore grigio che si dipanavano verso l’esterno. Come se un pittore folle avesse deciso di trasformarlo in una chioma attraversata da corrente elettrica. Praticamente come la testa della piccola Maggie Simpson.

La devo smettere di prendere le pillole di carbone prima di andare a letto.

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La donna del fiume

Era una giornata soleggiata, ideale per una passeggiata immersa nella natura. Il fiume era illuminato da mille riflessi argentei che, impudenti, le si riverberavano negli occhi, riparati da grossi occhiali da sole. Aveva lasciato i pensieri a pascolare liberi, facendosi condurre dai piedi che, tranquilli, seguivano il serpeggiare del fiume. Si sentiva serena, circondata da tutto quel verde. Se l’era meritata proprio quella giornata dopo tanto intenso lavoro. Quel posto le era sempre piaciuto, le faceva venire in mente immagini fuggevoli, ancora impolverate nella soffitta della sua mente; avrebbe voluto fissarle meglio quelle immagini, colorarle, darle più luce, come i riflessi del fiume…

Venne distolta da una strana sensazione di disagio: si sentiva osservata. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Un malessere strano s’impadronì del suo corpo: una vibrazione forte e sgradevole. Prese coscienza di trovarsi da sola in un posto isolato e rapida imboccò il sentiero che portava al parcheggio. Improvvisamente il rumore di foglie secche, proveniente da dietro un intricato muro di cespugli, la fece sobbalzare; qualcosa si mosse oltre le piante, si girò con i nervi tesi pronta a reagire. Vide un’ombra che si celava tra i rami; scattò come una molla, saltò un tronco e s’infilò tra gli alberi. Si sentiva inseguita da passi veloci che calpestavano i rami e le foglie con rapidità, ma il suo fisico agile distaccò quei rumori sinistri e raggiunse il parcheggio.

Tornò a casa che ansimava ancora: era sconvolta. Chiuse bene la porta d’ingresso, poi controllò le finestre e i balconi e, infine, si distese sul divano rabbrividendo.

Si svegliò completamente zuppa di sudore, il sogno era stato intenso e terribile. Sentiva ancora il fiato dell’uomo che le rimbombava nella testa e, stranamente, ne sentiva anche l’odore, uno strano odore che le ricordava qualcosa, ma che non riusciva a definire. Com’è possibile? – Pensò. Mise il latte sul fuoco, tirò fuori la scatola dei cereali e accese la televisione per il notiziario del mattino. C’era qualcosa nella sua mente che non quadrava, la sua percezione stava cercando di comunicarle qualcosa, ma cosa? – Si chiese.

L’uomo col microfono stava intervistando un tizio che mostrava un punto vicino alla riva del fiume, esattamente dove si trovava lei. Ma quando? Nel sogno o il giorno prima? Non riesco a capire – si disse. Alzò il volume del televisore, ma l’intervista era finita.

Accese il computer e si collegò sul sito di un quotidiano. «All’alba di questa mattina è stato trovato il corpo, non ancora identificato, di una donna nuda. Il cadavere era nel fiume a poca distanza dalla riva. La donna aveva segni di violenza lungo tutto il corpo». La puzza di gas la fece emergere dallo strano torpore in cui era caduta; corse in cucina, ma urtò il mobile e fece cadere una cornice, si fermò solo un attimo e poi continuò; girò la manopola del gas e aprì il balcone; prese uno straccio e pulì velocemente il latte che si era riversato sul fornello; richiuse il balcone e tornò indietro a raccogliere la cornice: la foto la ritraeva sorridente con una gardenia nei capelli e con in braccio il suo gatto. Chissà dove sta Sciùsciù, è da ieri che non lo vedo – pensò. Passò il resto della giornata alla ricerca di notizie sulla morte della donna del fiume. La polizia non era ancora riuscita a identificarla; le uniche notizie certe erano che era stata violentata e che poteva avere dai venticinque ai trent’anni, altro non si sapeva, anche perché il corpo era in avanzato stato di decomposizione e il viso era stato martoriato dai topi. Ormai era ossessionata da quel delitto: passava le ore ascoltando telegiornali e scandagliando internet alla ricerca di informazioni sull’assassino. Il terrore si trasformò in odio, un odio profondo che la tenne sveglia tutta la notte, china davanti al monitor a scrutare nella rete in cerca di tracce. Le immagini del corpo di quella povera donna le saettavano nella mente come tanti flash; era come se la morte di quella giovane la coinvolgesse in prima persona. L’alba la sorprese addormentata con la testa sulle braccia distese davanti al monitor. Si alzò e si diresse in cucina; prese la scatola dei croccantini per Sciùsciù, ma vide che la ciotola del gatto era ancora piena. Si versò un bicchiere di latte direttamente dalla bottiglia presa dal frigo. Tornò alla scrivania e avviò il computer; era ancora in piedi mentre aspettava che la pagina diventasse leggibile. Il bicchiere le cadde di mano con un rumore che rimbalzò fin dentro la profondità del suo essere: «La donna del fiume ha finalmente un volto». L’immagine sorridente di lei con una gardenia nei capelli e con in braccio Sciùsciù invase il monitor.

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La Ninfa

I vapori saturavano la grotta condensandosi in gocce sotto la volta che, gravide, cadevano di tanto in tanto. L’uomo galleggiava leggero lasciandosi portare dalla piccola corrente creata dal getto d’acqua che sgorgava da un’anfora incastrata nel muro appena sopra la vasca. Qualcuno si era preoccupato di profumare l’acqua con essenze di eucalipto e alloro, più un altro profumo che non riusciva a identificare. Si sentiva avvolto in un limbo benefico. Era come se fosse lì dalla nascita, anzi, da molto prima. Gli sembrava come se il tempo stesse decidendo se continuare il suo corso o fermarsi a contemplare la scena, fissandola in un tempo senza tempo. Un piacevole calore gli faceva scorrere stille di perle lucenti che gli scivolano lentamente lungo il viso gocciolando nell’acqua. Sulla parete piccoli pezzetti di maiolica creavano un elaborato mosaico con scene di ninfe velate e ancelle con anfore e ghirlande di fiori, con piccole sorgenti che s’immettevano in una vasca simile a quella in cui si trovava l’uomo. Il tutto era incorniciato da linee ondulate di disegni moreschi che davano l’aspetto di un oriente antico e misterioso.

Le ancelle raccoglievano l’acqua sorgiva in piccole anfore disegnate delicatamente e, dopo averle profumate di oli fragranti, le versavano lungo il corpo delle ninfe – appena coperte da sottili veli di mussola. Alcune di esse si rincorrevano in cerchio saltando e danzando, per poi immergersi allegre nella piscina. Le voci gli giungevano chiare, contornate da fruscii, sciacquii e risolini allegri. Una melodia sconosciuta si fece strada, inerpicandosi delicatamente lungo il soffitto, per poi degradare lungo le pareti, fino a galleggiare sull’acqua.

Lei comparve da dietro la colonna incamminandosi lungo la vasca: il tessuto che l’avvolgeva ondeggiava spinto dall’andamento sinuoso delle anche. Si soffermò un attimo sorridendogli e poi s’immerse – mentre l’acqua si apriva al suo passaggio, per poi richiudersi alle sue spalle – in un liquido abbraccio contornato da lievi mulinelli, che le accarezzavano le cosce mentre avanzava. Sulla parete le ninfe li osservavano e ammiccano con sorrisi complici e piccole spinte dei gomiti. L’uomo rimase sdraiato sull’acqua, mentre veniva lambito dalle piccole onde create da lei, che era appena emersa al suo fianco. Le mani si toccarono con dita avide e curiose, poi le labbra si sfiorarono strisciando sulla pelle madida del sapore termale di sorgente calda. Infine le membra si unirono – aderendo perfettamente – in un ripetitivo e continuo orgasmo. Fino a quando un canto leggero in una lingua ancestrale iniziò a seguire il ritmo dei loro corpi. Fino a quando la melodia saturò l’ambiente. Fino a quando il tempo scordò il passato e abbandonò il futuro. Fino a quando dimenticò se stesso.

Era buio, l’inserviente vide il corpo galleggiare immobile con la faccia sotto e le braccia allargate. Si precipitò nella vasca con la speranza che l’uomo fosse ancora vivo. Ma il suo cuore s’era fermato già da un pezzo. “Dio”, pensò. “E’ il terzo che muore in un mese”.

Mentre sollevava il corpo appoggiandolo sul pavimento, il suo sguardo cadde sulla la scena lungo la parete – appena illuminata da una cono di luce soffusa. “Strano” pensò. “Eppure quella ninfa me la ricordavo nascosta dietro una colonna”.

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L’esperimento

Si svegliò da un sonno agitato, la sveglia segnava le 06:58; dalla finestra entrava un’aria frizzante di un bel mattino di metà settembre. Non ricordava il sogno ma era certo che non era stato bello: “Forse un incubo” pensò. Cercava di focalizzare i suoi pensieri su quello che aveva sognato, ma niente, non gli tornava in mente assolutamente niente. Si trovò in bagno guardandosi allo specchio: aveva il viso cereo e grosse occhiaie che gli si allungavano fin quasi alle gote: “Non è un bel vedere” si disse. Aprì il rubinetto e con le mani a coppa si spruzzò in faccia grosse quantità di acqua fredda – come se volesse, con quel gesto, cancellare quella sgradevole immagine di sé.

Senza ricordare la dinamica, si ritrovò in cucina con una tazza di caffè in mano, chiedendosi quando fosse successo. Aveva addosso una strana e indefinibile sensazione di disagio che non lo mollava; oltretutto c’era il fatto che non riusciva a ricordare i passaggi dal letto alla finestra e poi al bagno e infine in cucina. Improvvisamente una quantità enorme di informazioni cominciò ad affluire nella sua mente a una velocità impensabile per un cervello umano. Aveva il corpo attraversato da leggeri e continui spasmi, ma una attenta lucidità gli faceva capire di non preoccuparsi e di rilassare la sua mente, anzi di aprirla ancora di più. Senza preavviso gli spasmi aumentarono: cadde sul pavimento e cominciò ad inarcare e raddrizzare la schiena sempre più velocemente. Era lucido, era cosciente, era vivo; la morte non lo preoccupava, sapeva di non morire, sapeva che quello che gli stava succedendo era una prova, era un esame: un esperimento. Una luce intensa lo accecò e perse i sensi.

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Dove sei?

Sono disteso sull’amaca, montata tra l’albero e lo strallo di prua, leggendo le disavventure di Edmod Dantés: tradito dagli amici, incarcerato e privato dell’amore di Mercedes Herrera, che amerà per sempre, nel Il Conte di Montecristo. Ogni tanto distolgo l’attenzione dalla lettura, e dò uno sguardo intorno contemplando lo spettacolo che mi offre la natura.

L’aliseo mi accarezza avvolgendomi in un abbraccio caldo e costante, creando un dolce fruscio tra le palme di cocco protese verso il mare e distorte dal vento e dalla gravità. L’acqua cristallina, la cui trasparenza rende il fondale minacciosamente vicino, riflette l’ombra della barca che dondola dolcemente all’ancora. Sotto di essa, nella doppia veste di prede e predatori, un universo  variopinto s’industria alla ricerca dell’unico motivo di sopravvivenza, tra gli scheletri calcarei dei coralli. Sulla spiaggia bianca e assolata due granchi si rincorrono in circolo in una strana e misteriosa danza d’amore o di morte. Poco più in là, un colibrì vestito di blu cangiante vola  a scatti repentini da un fiore all’altro baciandoli dolcemente. E ancora oltre, le onde dell’oceano si frangono in un susseguirsi continuo e rumoreggiante, su un confine delineato da coralli e madrepore. In alto si avvicendano veloci batuffoli di cotone che si stagliano contro l’azzurro di un cielo caraibico, punteggiato da nere sagome dal preistorico profilo, che volteggiano alla ricerca di cibo. In lontananza un triangolo bianco risale il vento dirigendosi, senza fretta apparente, verso chissà quale esotica meta.

Mentre nella mia mente si forma il canovaccio descrittivo di questo scenario naturale… penso a te: rimbalzi nella mia mente come una palla di flipper, creando scintille di coscienza e  incertezza a ogni pensiero che si forma. Ogni impulso nervoso è ricoperto dalle tue sembianze: da un sorriso, uno sguardo, una posa. La tua immagine cresce a dismisura, a volte deformata, fino a straripare dallo schermo della mia immaginazione. Cerco di materializzarti nella mia memoria, ma perdo pezzi congrui di fantasia e annaspo tra i marosi dei tuoi molteplici profili, cercando di aggrapparmi a qualcosa di reale per non impazzire. Ti trovo e poi ti perdo in una danza ipnotica e surreale, combattendo tra ragione e follia, perdendo capacità e discernimento…

E ti allontani: la tua sagoma di spalle, contornata da una lattiginosa luce bianca, cammina lentamente verso uno spazio buio e senza fine. In un altro posto, in un’altra terra, in un altro mondo, in un altro sistema, in un’altra galassia, in un altro universo, in un’altra vita!

Mi sveglio, allungo le membra con un movimento graduale e lento; i colori sono svaniti e il buio si è impossessato della luce, lasciando il posto a uno scenario diverso. La notte inizia a macchiarsi di minuscole luci di differente luminosità, il cielo stellato sopra di me non è un sogno ma una realtà. Una lacrima incontrollata forma un lungo solco sulla mia guancia, e il mio pensiero ritorna a te, chiedendosi dove sei: “Dove sei Mercedes? Meraviglioso e immacolato frutto della mia immaginazione.”

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