L’avanzare di tacchi rimbalza tra le pareti dietro l’angolo, mi entra in testa e si espande, come questa pioggia sul marciapiede che dilaga senza ostacoli. Sembrano tacchi da otto.
Forse li ho già sentiti, li conosco, sono sicuro di averli incrociati altre volte. Scavo nella memoria ‒ come quell’ombra laggiù nella spazzatura – buttandomi alle spalle quello che non mi serve. Tacchi da otto, tacchi da otto… sono larghi, sicuro; non a spillo, certo. Sembrano decisi, determinati, conoscono la strada, chissà, l’avranno fatta mille volte ‒ come quel tram che sferraglia scintillando nella notte. Intanto il ticchettio aumenta, si avvicina, poi si ferma: li sento esitare. Il silenzio si fa intenso, l’aria pesante. Improvvisamente girano su se stessi e tornano indietro. Supero l’angolo: la strada è buia; accelerano, li inseguo; affannano… I battiti del mio cuore aumentano e si confondono con il loro rimbombare veloce intrecciandosi lungo le pareti buie alle mie spalle. Supero un paio di ostacoli aumentando l’andatura. Il sudore comincia a colarmi lungo la schiena, mentre li sento sempre più vicini. Ormai ci sono, manca poco, gli sto addosso… Ecco! Presi! Finalmente le riconosco: sono le scarpe della signora Tilde. Saranno scappate quando avrà aperto la porta.