Chinook

“Chinook?… Che vuol dire? Sembra una marca di salmone affumicato“, disse lei.

“E’ un vento, un vento caldo che dal Canada attraversa le praterie del nord America”, rispose lui disteso sul divano, mentre cercava di far funzionare il telecomando battendolo sul ginocchio.

“E che c’entra il vento con quello di cui ti sto parlando?” Disse lei strofinandosi la fronte.

“Niente, mi è balzata in testa la parola e l’ho detta”, rispose lui. L’aveva sentita alla televisione poco prima che lei arrivasse. E stranamente continuava a ronzargli in testa come un elicottero.

“Mah! Mi sa che c’è qualcosa nella tua testa che non va. Dovresti farle una messa a punto. Conosco un buon meccanico dei cervelli se vuoi”, disse lei ironica.

“Non essere spiritosa, c’è poco da sfottere. Guarda te invece. Credi che il mondo sia avvolto dalle fiabe… ”, disse lui cambiando canale continuamente.

“Ma non puoi, improvvisamente uscirtene con una parola che non c’entra niente col discorso che stiamo facendo. E’ assurdo!” Disse lei, incrinando il tono della voce.

“Niente è assurdo. Ho solo dato aria alla mia immaginazione, nient’altro” disse lui, continuando a battere il telecomando sul ginocchio.

“Dai aria alla tua immaginazione e contesti la mia fantasia? Sei un presuntuoso!” Disse lei unendo i lunghi capelli in una coda, mentre lisciandoseli tirava fuori quelli morti.

“Hai ragione…”, rispose lui, agitando il telecomando verso il televisore come un tubo dell’acqua.

“E non darmi ragione… mi fai incavolare di più. Mi dai ragione e lasci le parole sospese solo perché non hai argomenti!” Disse lei mettendosi tra lui e il televisore con le braccia sui fianchi.

“Sì, vabbè… spostati”.

“ Mi sono scocciata dei tuoi silenzi e delle tue mezze parole… guardati, ormai ti sei divanizzato completamente, hai preso pure il colore del divano!” Disse lei, puntandogli un dito contro e rimanendo nella stessa posizione.

“Sei pedante… ” ,

“Sarò pedante, ma tu sei un povero illuso che è convinto di sapere tutto, e sputi fuori parole solo per dimostrare che ne sai più degli altri! Chinook! Chinook un cazzo!”

“Esco…” sbottò lui, alzandosi di scatto, mentre gli incisivi gli martoriavano il labbro inferiore.

“Sì esci, esci, fai bene a uscire brutto stronzo. Anzi, fai una cosa, non tornare mai più! Ne ho piene le tasche della tua erudizione del cazzo! Impotente!”

Lui si girò di scatto e attraversò il corridoio a grandi passi – un nervo ribelle iniziò a pulsargli sull’occhio destro. Aprì lo sgabuzzino e da dentro la cassetta degli attrezzi tirò fuori un grosso martello; tornò sui suoi passi e la trovò in cucina che guardava dentro il frigo; alzò il martello verso l’alto e scattò per colpirla. Un grosso coltello da cucina balenò nella mano di lei, colpendolo ripetutamente al ventre; la sorpresa fu l’ultima cosa che rimase impressa nello sguardo divanizzato di lui.

“Chinook un cazzo!” Gridò lei. Prese il telecomando e glielo ficcò in bocca.

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Tu sei il bene e lui è il male

Pato entrò nel momento in cui lui svenne, se lo caricò sulle spalle e lo portò all’ospedale.

Afro si risvegliò nel letto dell’ospedale con la flebo che gli usciva dal braccio inerme.

«Come ti senti?» Sussurrò Pato.

«Come se fossi stato tutta la giornata sdraiato al centro dell’autostrada a farmi schiacciare da autoarticolati a dodici ruote» rispose con un mezzo sorriso l’amico.

«Questi attacchi sono diventati troppo frequenti, quando la smetterai di bere tirare coca e prendere psicofarmaci?» Disse Pato.

«Quando la smetterai di rompermi le palle ogni volta che vieni a casa mia?» Rispose Afro seccato.

«Veramente la casa è mia, tu sei un ospite» disse Pato divertito.

«Ma io ti pago l’affitto!»

«L’affitto l’hai pagato solo il primo mese, cinque anni fa, e sicuramente i soldi te li diede Evia».

«I soldi erano i miei, guadagnati con un lavoro… », disse Afro guardandosi intorno in cerca di qualcosa.

«Con quale lavoro? Ti conosco da trent’anni e non ti ho mai visto lavorare!»

«Basta mi hai scocciato con le tue litanie da prete spretato. Passami i vestiti che voglio andare via da qui!» Afro si era già staccato la flebo mettendosi a sedere sul letto.

«Fermo! Che fai? Ti devono fare gli accertamenti!» Esclamò Pato, avvicinandosi.

«Dài Pato mi sento bene, mi è passato tutto. Andiamo al Goose Neck a farci una bevuta, Cino sarà felice di rivederti»

«Cavolo ti sei appena ripreso, ti trovi nel letto di un ospedale e già pensi a bere? Sei pazzo!»

«Dai Pato, i vestiti, andiamo su! Ti offro un drink»: Afro non riusciva a prenderli, la stanza gli vorticava intorno senza sosta.

«Già te l’ho detto, se non la finisci ci rimetterai la pelle!»

«La pelle ce la rimetti tu se non mi prendi i vestiti, brutto stronzo!»

«Eccoti i vestiti. Ma la prossima volta che mi dai dello stronzo ti spezzo un braccio!» Gli urlò Pato, buttandoglieli addosso.

«Tu e il tuo karatè non mi fate paura… brutto stronzo!»

«Bah! E’ tutto inutile con te, solo tempo perso; dài andiamo, ma non al Goose Neck, torniamo a casa, sono stanco ho fatto dieci ore di aereo e ho un sonno tale che mi stanno sbadigliando anche le ossa».

«Pronto».

«Ciao, dormivi?» Chiese lei.

«Che ore sono?» Domandò Pato.

«Le nove», rispose lei.

«Le nove di sera?» Chiese incerto.

«Sì. Ho sentito Afro, mi ha detto che eri tornato… scusa ti ho svegliato?»

«Sì, ma hai fatto bene, era un brutto sogno… come stai?»

«Come una donna con due figlie piccole e un marito che pensa solo a fare soldi!»

«Non ti lamentare, hai due figlie bellissime e un marito innamorato. Cos’hai da rimpiangere?»

«Rimpiango la giovinezza, la spensieratezza, le nostre uscite serali: io tu e Afro a cazzeggiare tutta la notte. Questo rimpiango»

«Evia erano altri tempi, adesso abbiamo delle responsabilità, e… »

«Le responsabilità? Odio le responsabilità!»

«Anch’io, ma ci sono», disse calmo lui.

«Che fai stasera?» Chiese lei.

«Non ho programmi».

«Avevo pensato di vederci noi tre e passare una serata insieme, come ai vecchi tempi. Mio marito è fuori, torna mercoledì e le bambine sono da mia madre. Che dici?»

«Per me va bene».

«Bene. Tra un’ora ce la fai?».

«Sì. Il tempo di fare una doccia».

«Ok, passo a prenderti alle dieci. Afro ci aspetta al Goose Neck. Ciao», disse lei riattaccando.

Il Goose Neck si trovava vicino a degli studi televisivi, ed era frequentato da vari personaggi dello spettacolo: terreno di caccia personale di Afro.

La biondina entrò e si diresse verso il banco guardandosi intorno in cerca di qualcuno. Afro si avvicinò sedendosi sul trespolo a fianco a lei e ordinò da bere.

«Sbaglio o ti ho vista a Teleuno?» Domandò Afro con un sorriso ammaliante.

«E’ probabile. Perché, lavori anche tu lì?» Chiese lei voltandosi.

«No, ma ci vado spesso. Sono amico di Elio Tosti», rispose Afro.

«Il regista?» Domandò lei interessata.

«Sì». Ormai la tecnica era consolidata: si fingeva amico di un noto regista per adescare giovani attricette.

«Quindi sei qui per vederti con lui?» Chiese lei speranzosa.

«Dovevo, ma mi ha chiamato pregandomi di rimandare perché era molto impegnato», rispose Afro pronto.

«Ah… », disse lei un po’ delusa.

«Peccato perché riparto domani e torno fra tre mesi. Sai, il lavoro… ».

«Perché, che lavoro fai?»

«Faccio lo skipper professionista su barche da regata», rispose lui con disinvoltura: era un copione che conosceva a memoria.

«Oh!» Disse lei con una punta di meraviglia.

«Domani parto, vado in Inghilterra per una regata importante sulla barca del principe Carlo»

«Oh, il principe Carlo d’Inghilterra. Deve essere molto rischioso il tuo lavoro, in mezzo al mare, le onde, le tempeste, vero?»

«Sì, abbastanza, ma ormai ci sono abituato… senti ti andrebbe di andare a cena? Conosco un posticino carino… », disse lui.

«Beh, io veramente avrei un appuntamento, ma vedo che la mia amica non c’è, sai sono arrivata un po’ in ritardo… », rispose lei indecisa.

«Com’è la tua amica… di aspetto intendo?» Chiese lui, guardandola come un leone che aveva assestato la prima zampata alla preda bloccandole la fuga.

«Bassina con i capelli corti e neri… », rispose la preda con un filo di voce.

«Mi è sembrato di vederla uscire prima che tu arrivassi, sì, penso proprio che fosse lei»: ormai Afro non aveva più freni, si era procurato la selvaggina e si accingeva a divorarla.

«Peccato ci tenevo tanto a rincontrarla», disse la biondina non molto dispiaciuta. Afro le piaceva: un uomo affascinante con tante avventure da raccontare e a lei le avventure piacevano tanto.

«Allora andiamo?» Disse lui prendendola sotto braccio

«D’accordo ma solo la cena, nient’altro»

«Solo cena, parola di gentiluomo… », disse il leone, con una strana luce negli occhi.

«Sei uno schianto!» Disse Pato entrando e baciandola sulla guancia.

«Grazie anche tu», rispose Evia ricambiando il bacio.

«E questa macchina?» Chiese lui.

«E’ una Porsche Cayenne Turbo, me l’ha regalata mio marito il giorno del mio compleanno», rispose lei, immettendosi nel traffico del venerdì sera.

«Bella», disse lui senza interesse.

«Sì, bella e costosa. Vuoi guidarla?»

«No grazie, non ci tengo proprio».

«Dimenticavo, a te le automobili, le moto, i motoscafi, i vestiti costosi, non ti piacciono. Sei esattamente l’opposto di Afro».

«Per fortuna!» Rispose Pato.

«Quanto tempo ti trattieni?» Chiese lei, accendendosi una sigaretta con un vecchio Dupont d’oro.

«Pochi giorni, forse una settimana», rispose lui aprendo il finestrino.

«Oh scusa, dimenticavo che ti dà fastidio il fumo», disse lei spegnendo la sigaretta.

«Potevi fumare… ».

«E dopo dove andrai?» Domandò lei.

«In Australia».

«Bella l’Australia, ci sono stata anni fa insieme a un’amica, prima di sposarmi. In un’altra vita», disse lei, mentre le nocche delle mani sul volante sbiancavano.

«Che ti succede Evia?» Chiese lui, accorgendosi della tensione che l’avvolgeva.

«Niente le solite cose: figlie, casa, marito, shopping, palestra, estetista, analista, e qualche amante. Tutto uguale non è cambiato niente dall’ultima volta che ci siamo visti», rispose lei tutta d’un fiato, riaccendendosi un’altra sigaretta.

«Ma non parliamo di me, parliamo di te. Che farai in Australia?» Continuò lei frenando bruscamente a un incrocio.

«Parte un’altra tappa della regata intorno al mondo: la Sydney Ushuaia», rispose lui, felice di di aver puntato i piedi sul pianale dell’auto per evitare di essere catapultato contro il parabrezza nonostante la cintura di sicurezza.

«Ushuaia! E dove si trova?» Chiese Evia soffermandosi più del solito all’incrocio e collezionando una serie infinita di colpi di clacson che giungevano da dietro.

«A sud della Terra del Fuoco. Di fronte all’Antartide. Hai mai sentito parlare di Capo Horn?» Disse Pato facendole segno di proseguire.

«Sì, Capo Horn, ho letto da qualche parte che quando lo si attraversa è come essere in una specie di lavatrice».

«Be’, chi l’ha scritto non si è sbagliato di molto»

«E quando durerà la regata?»

«Dipende: un mese, forse più».

«Però questo sport ti fa bene».

«Perché?»

«Sei rimasto esattamente come eri da giovane. Per caso hai un ritratto in soffitta che invecchia al posto tuo?» Chiese lei scherzando. L’allusione al Ritratto di Dorian Gray era quasi calzante.

«Il ritratto sì, ma mi piacciono ancora le donne», rispose lui alludendo alla presunta omosessualità del personaggio di Oscar Wilde.

«Sai cosa è successo stamattina?» Disse Pato.

«Cosa?»

«Quell’invertebrato è stato colto da un altro attacco: l’ho trovato stamattina svenuto che puzzava come una cantina».

«Strano, non me ne ha parlato».

«Perché avrebbe dovuto? Tanto lo sa che t’incazzi. Ultimamente sta esagerando troppo, la cosa comincia a preoccuparmi».

Un velo di tristezza oscurò ancor di più i profondi occhi neri di Evia. Ma Pato senza curarsene continuò: «devi smetterla di aiutarlo, non dargli più soldi; gli rendi la vita troppo facile».

«Anche tu gli rendi la vita facile. Lo ospiti a casa tua e gli paghi le bollette!» Rispose Evia: alternando lo sguardo tra lui e la strada.

«Lo faccio solo perché mi controlla la casa, e poi le bollette sono intestate a me… ».

«Queste sono scuse, lo tieni sulla coscienza anche tu, come me!»

«Possibile che ogni volta che parliamo di Afro dobbiamo litigare? Sembriamo due genitori che discutono sul comportamento di un figlio scapestrato… che ironia!»

«Siamo arrivati!» disse lei, troncando il discorso.

Cino gli andò incontro tutto contento abbracciandoli e baciandoli contemporaneamente.

«Che piacere rivedervi ragazzi. Evia sei bellissima, ti trovo splendidamente. Bentornato amico mio quali terre hai scoperto con il tuo veliero?»

«Ciao Cino come stai?» Disse Evia.

«Nessuna terra nuova, solo terra usata amico mio», rispose Pato.

«Dài sedetevi che vi offro una cosa».

«Cino hai visto Afro?» Chiese Evia guardandosi intorno.

«L’ho intravisto dall’ufficio che parlava con una bionda che fa la comparsa a Teleuno. Ma adesso che ci penso non l’ho più visto da allora».

«Sempre lo stesso… » disse Pato: era certo che per quella sera Afro non si sarebbe più fatto vedere.

«Stronzo!» Fu il commento di Evia.

«Dài Evia lo conosci, non ci puoi fare affidamento… », disse Cino.

«Lo avevo pregato! Glielo avevo detto! Afro ti raccomando è tornato Pato, ho voglia di vedervi e passare una serata insieme a voi… bastardo!» Gli occhi di lei s’incendiarono di rabbia.

«Ci porta il conto per piacere», disse Afro al cameriere.

«Dài raccontami un’altra avventura», chiese la biondina estasiata.

«Be’ ci sarebbe quella del porto di Casablanca, ma fu una scazzottata», accennò Afro passandosi la mano tra i capelli.

«Dài racconta, racconta!»

«Stavamo nel porto di Casablanca sulla barca in attesa che altre due persone si unissero all’equipaggio. Dopo cena decisi di fare quattro passi per digerire un poco», iniziò a raccontare Afro versandosi l’ultimo residuo di una bottiglia di Chablis.

«Senza accorgermene mi trovai in una zona del porto molto malfamata e fui circondato da quattro brutti ceffi che avevano la ferma intenzione di sbudellarmi e impossessarsi del mio portafoglio», continuò lui ripassandosi la mano tra i capelli.

«Con molta calma cercai di fargli capire che non ero il loro tipo e che era meglio lasciarmi stare. Ma i signori non ascoltarono i miei consigli, anzi avanzarono tutti e quattro contemporaneamente verso di me. Misi le spalle al muro e attesi».

«Il conto signore» disse il cameriere.

Afro, con noncuranza, estrasse la carta di credito dal taschino e gliela diede.

«E poi?» Chiese la biondina in trance.

«Il primo mi attaccò da destra con un coltello lungo almeno venti centimetri. Mi spostai di lato bloccandogli il braccio con la sinistra e con la destra gli diedi un colpo alla nuca così», Afro mimò un colpo con il taglio della mano dietro la nuca di lei.

«Ohh! Ma conosci anche le arti marziali?» Disse la biondina con stupore.

«Si sono maestro di karatè e judo».

«Ohh! E dopo?» Chiese la biondina con un filo di voce.

«Il secondo mi mise una mano sulle spalle cercando di accoltellarmi. Gli feci una leva e gli spezzai il braccio così!» Prese il braccio della biondina e simulò una leva che aveva l’unico fine di sondargli la tetta.

«Mi dispiace signore ma la carta non è abilitata» disse il cameriere con discrezione.

«Come non è abilitata? Non è possibile; provi ancora», chiese lui indignato.

«Abbiamo provato più volte signore, ma dà sempre la stessa risposta: carta non abilitata. O mi dà un’altra carta o, se preferisce, può pagare in contanti», rispose il cameriere con gentilezza; dirigendosi poi verso un altro tavolo.

«Contanti? Io non porto denaro con me, mi deforma la giacca», disse Afro spazientito.

«Lascia stare, pago io», intervenne lei sottovoce.

«Scusami non so che cosa è successo alla carta. Lunedì chiamerò la banca e chiarirò questa faccenda. Mi sentiranno. Senti ti dispiace se mi dai i soldi e pago io al posto tuo? Non voglio dare la soddisfazione a quel cameriere di vedermi offerto la cena da una donna», disse Afro, raddrizzandosi il nodo della cravatta già dritto. Lei, un po’ stupita, gli passò i soldi senza commentare.

«Cameriere».

«Prego signore?»

«Ecco a lei, ci porti due vodka, e tenga il resto».

«Grazie mille signore», rispose il cameriere, arretrando e facendo un mezzo inchino.

«Ma come tenga il resto? Il conto è centocinquanta euro e tu gliene dai duecento?» Chiese lei.

«Così la prossima volta si ricorderà di me e starà più attento a non offendermi», disse lui, mentre il cameriere arrivava con due Absolute ghiacciate.

«Non ti capisco, in cosa ti ha offeso?» Chiese lei, dopo che il cameriere si era allontanato.

«Poteva dirmi di pagare la prossima volta, quell’ignorante!» Rispose lui, soffermandosi a osservare il bicchierino di vodka in controluce e bevendolo tutto di un fiato.

«Scusa, torno subito», disse lui improvvisamente, dirigendosi verso il bagno.

Di ritorno dal bagno Afro aveva le mascelle indurite, marcate ancora di più dal viso abbronzato dalle lampade.

«Non la bevi la tua vodka?» Chiese lui tracannandola senza aspettare la risposta.

«No… non mi va»

«Andiamo?» Disse lui in piedi, accarezzandosi le sopracciglia con il pollice e il medio e allargando la mano per continuare il gesto nei capelli.

«Ok», disse lei.

«Dove abiti?» Chiese lui, tirando su col naso.

«Perché, mi vuoi già accompagnare a casa?»

«Pensavo di comprare una bottiglia e berla a casa tua, così ti finisco di raccontare la storia di Casablanca».

«Avevo detto solo cena, nient’altro» disse lei; poi: «nei pressi della stazione centrale» e gli sorrise.

Lei si chiuse la porta alle spalle, lui si avvicinò e cominciò a baciarla sul collo, poi sulla bocca, lesto le passò la lingua intorno all’orecchio e poi iniziò ad aprirle la lampo. Lei cominciava piano, piano a sciogliersi e a sospirare, accompagnandolo con i movimenti del corpo – intanto che lui giocava con i suoi seni. Si spostarono sul divano, lui le tolse il vestito, ma, mentre lei stava per togliersi il reggiseno, la bloccò.

«No, aspetta, resta con il reggiseno e le mutandine e non togliere neanche le scarpe».

«Neanche le scarpe?» Chiese lei, «ma come faccio? Ho i tacchi a spillo!»

«Appunto» rispose lui, con una luce felina negli occhi.

La spinse dolcemente sul divano, le spostò le mutandine; iniziò a leccarle, lentamente, prima il monte di venere e poi, piano piano fin giù, e poi ancora su, contornando le grandi labbra, fino a stringerle il clitoride tra le labbra. Lei inarcava la schiena e sospirava ad ogni contatto della lingua di lui che serpeggiava sinuosa. Dopo un po’ Afro tirò fuori dalla tasca una bustina di cocaina.

«Co-cosa fai?» Chiese lei, completamente inerme.

Le strappò le mutandine e cosparse la vagina di polvere bianca e iniziò a leccargliela con veemenza, spostandosi, con naturalezza, nelle zone più sensibili, penetrandola con la lingua fin dentro la sua natura, in fondo, fino a leccarle l’anima ─ intanto che le mani le accarezzavano le cosce che fremevano inarrestabili, fino a farle perdere il conto degli orgasmi che si susseguirono senza sosta.

«Adesso prova tu» disse lui: mettendo un poco di coca sulla punta del pene. Lei si inginocchiò e cominciò a leccarglielo adagio, spostando lentamente la testa prima da un lato e poi dall’altro; guardandolo intensamente negli occhi, come se volesse, con quello sguardo, dichiarare la sua sottomissione a quell’uomo; la sua schiavitù. Dopo un po’ lui le prese la testa fra le mani, le strinse i capelli, e iniziò a spingerla con fermezza verso il suo pene per poi allontanarla successivamente, in un continuo e costante ritmo. Lei lo seguiva aprendo la bocca e succhiandolo a ogni spinta, in un gioco interminabile.

«Mettimi i tacchi sotto le braccia» disse lui improvvisamente, spingendola di nuovo sul divano. Lei, ormai preda, allargò le gambe e puntò i tacchi del décolleté sotto le ascelle di lui. Afro appoggiò il pene all’entrata della vagina bagnata da infiniti orgasmi, aspettò un attimo e poi vi entrò solo in parte, ripetendo il movimento più e più volte, finché non la penetrò spingendoglielo dentro con violenza, possedendola con un ritmo continuo e forsennato senza fermarsi.«Spingi coi tacchi, spingi dài!» La incitava con foga. Lei cominciò a spingere i tacchi con forza, mentre si dimenava e gridava oscillando la testa e inarcando la schiena; come se fosse posseduta dal demonio. Sbatteva le braccia sul divano e puntellava i piedi con forza, strillando parole incomprensibili; mentre lui continuava a possederla con brutalità, senza fermarsi, all’infinito.

Pato e Evia uscirono dal Goose Neck in un silenzio quasi solido.

«Fammi dormire con te, non voglio dormire da sola. Stanotte ho bisogno d’amore», disse lei, quasi pregandolo.

Pato la guardò come se volesse leggerle nel più profondo dell’anima, per capire dietro a quei bellissimi occhi neri quale dolore si celasse, ma sapeva che la conseguenza di tutti i dolori di lei avevano un solo nome: Afro.

«Evia non puoi rifugiarti fra le mie braccia ogni volta che Afro ti mette da parte. Non è giusto!»

«Sei uno stupido se pensi questo, lo sai che vi amo entrambi, l’unica differenza è che lui approfitta del mio amore e io approfitto del tuo», disse lei accendendosi una sigaretta.

«E pensi che questo triangolo ci faccia bene?»

«Io penso solo che i nostri destini sono indissolubilmente legati! Tu sei il bene e lui è il male e io non posso vivere aldilà di voi due».

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