Lingue di fuoco attraversano il buio
il cielo si arrossa davanti alle stelle
fischi fuggevoli rompono l’aria
uomini cadono come foglie ingiallite
la morte attraversa il deserto
chi ci purificherà l’anima?
Sono resistente all’acqua fino alla gola
Lingue di fuoco attraversano il buio
il cielo si arrossa davanti alle stelle
fischi fuggevoli rompono l’aria
uomini cadono come foglie ingiallite
la morte attraversa il deserto
chi ci purificherà l’anima?
I cammelli vennero svegliati dai fischi e dalle grida dei nomadi; le stelle cominciarono a sbiadire, ma Orione s’intravedeva ancora in parte, come se volesse dare un ultimo addio alla Terra.
Una strana luce si addensò a oriente: una specie di lanugine perlata. I giovani, ancora insonnoliti e imbacuccati nei loro mantelli, raccoglievano le ultime cose intorno al bivacco della sera prima. Kamil frustava leggermente il collo di Sovrano che non ne voleva sapere di alzarsi. Mai nome era stato più adatto per quel cammello: aveva un’indolenza e una regalità irritante; masticava continuamente anche senza avere niente in bocca. Kamil a volte lo odiava, ma era una bestia resistente ed era ancora relativamente giovane. Anche Kamil era giovane per essere un cammelliere. La carovana si mosse lentamente verso sud. Un sole bianco iniziò ad affacciarsi da dietro le dune. I cammelli erano irrequieti. Qualcuno si attardò girandosi a guardare quella strana luce che invadeva il mondo.
A metà mattina il Ghibli cominciò a soffiare senza preavviso, cogliendo la carovana di sorpresa in mezzo a un deserto appiattito. Gli uomini e i cammelli avanzavano con difficoltà contro il vento ululante e ficcanaso, mentre le vesti aderivano al corpo come a tante statue di marmo.
Quella duna provvidenziale fu un regalo di Allah. Ripararono infagottati come tanti fantocci privi di vita. Per due giorni e due notti il Ghibli fece sentire il suo potente respiro. E all’alba di ogni nuovo giorno la strana luce perlacea dominava il cielo del deserto. Il terzo giorno il vento sparì. Gli uomini si mossero lentamente scrollandosi di dosso la sabbia che li aveva coperti completamente. Uno di loro era morto durante la notte: il vecchio Aban non ce l’aveva fatta; troppo debole ormai. Anche alcuni cani giacevano distesi privi di vita. L’aria puzzava di morte, mentre i primi avvoltoi cominciarono ad arrivare chissà da dove. C’era dolore nel campo, ma anche sollievo. La tempesta era passata, la vita continuava; c’era merce da consegnare e la carovana riprese il suo viaggio. Kamil era dispiaciuto per la morte del vecchio Aban. Era un tipo strano il vecchio Aban. Se ne stava sempre là, da solo con il suo cammello – ci dormiva a fianco. A volte Kamil gli portava il tè e lui per ringraziarlo gli raccontava vecchie storie.
Era l’alba la carovana aveva ripreso il suo cammino. Kamil spronò Sovrano verso un rilievo poco distante. Aveva intravisto uno strano luccichio appena sopra di esso. Giunto sulla piccola altura guardò verso ovest e gridò: “ Aban! Aban! Torna indietro, Aban!”
Poi si voltò. Una strana luce si addensava a oriente, come una specie di lanugine perlata
I due sono appoggiati vicino alle portiere dell’ambulanza.
– Vedrai quanti cadaveri incontrerai sulla tua strada, specialmente i fine settimana. Gli sta dicendo quello con i capelli bianchi accendendosi una sigaretta. E’ un tipo tozzo, con il tono di voce che dà ai nervi. L’altro, un giovanotto alto e pieno di brufoli, scuote la testa in segno di assenso.
– Questo è il tuo primo giorno di lavoro e già lo battezzi con un incidente mortale, cominci bene ragazzo! Dice il tozzo, sbuffando fumo solo dal naso. Percepisco chiaramente dal suo modo di fare, che si sente padrone della scena; un’occasione ghiotta per farsi bello davanti a qualcuno che ne sa meno di lui. E, senza esitare, continua nel suo monologo.
– Ricordo una volta che tirammo fuori due corpi da una macchina schiantata contro un albero. Ci misero tre ore i pompieri a tagliare le lamiere di quella cazzo di macchina, talmente che era accartocciata. Tirammo fuori prima il corpo di lei, quasi irriconoscibile… poi quello di lui. Al che notai che lui c’aveva la patta dei pantaloni aperta. Sulle prime non ci feci caso, sai negli scontri scoppia tutto oltre all’airbag… incredibile! Ogni volta che ci penso mi viene da ridere… insomma, lui aveva la patta dei pantaloni aperta e mi accorsi che c’era molto sangue là, in quel posto, sai? Mentre stavo là a cercare di capire per quale cazzo di motivo lui c’aveva tutto quel sangue, Franco, il mio vecchio collega, un gran simpaticone, mi chiama e mi fa: «Hei Peppe! Vieni un po’ a vedere… », mi avvicino al corpo di lei, mentre Franco s’infilava i guanti di lattice. Bisogna sempre tenere i guanti di lattice ragazzo, ricordati; non si può mai sapere che tipo di malattia c’hanno… specialmente questi drogati del fine settimana. Dunque dicevo: Franco apre la bocca alla donna e… indovina cosa ne tira fuori? Dài, indovina! Non ci crederesti mai, eheheheheh. Un cazzo! Lei aveva la metà del cazzo di lui in bocca. Capisci? Ogni volta che ci penso mi scompiscio dalle risate. Un cazzo… incredibile! Quella troia gli stava facendo un pompino e sono andati a sbattere contro l’albero, ci pensi? Mio Dio che ridere; ne abbiamo parlato per un mese. La risata del tozzo continua a risuonare tra gli alberi ai lati della strada.
A questo punto mi chiedo perché continuano a stare là, fermi, senza fare niente, e la risposta la dà indirettamente il tozzo, come se avesse letto nel mio pensiero.
– Ma quanto ci mette il furgone mortuario ad arrivare? Prendi questo povero cristo a terra, per esempio, chissà quale stronzo l’ha investito ed è poi scappato. Guarda le scarpe; lo sai perché le scarpe si staccano quando uno viene investito? Chiede il tozzo, sempre più felice di essere fonte di conoscenza per quel povero ignorante.
Il brufoloso scuote la testa in segno di diniego.
– Per lo schianto forte, sono le prime cose che volano via quando uno viene investito, capisci? Ricordati, quando vedi le scarpe sull’asfalto significa che non c’è più niente da fare. Dice il tozzo, accendendosi un’altra sigaretta.
– Volano via come l’anima. Dice il brufoloso rivolto verso il cielo.
– Finalmente! Ecco il furgone. Dice il tozzo, buttando la mezza sigaretta.
E’ tempo di andare anche per me. Passo a fianco al mio corpo disteso sull’asfalto, poi mi soffermo a guardare le scarpe. Le avevo appena comprate.
Era una giornata soleggiata, ideale per una passeggiata immersa nella natura. Il fiume era illuminato da mille riflessi argentei che, impudenti, le si riverberavano negli occhi, riparati da grossi occhiali da sole. Aveva lasciato i pensieri a pascolare liberi, facendosi condurre dai piedi che, tranquilli, seguivano il serpeggiare del fiume. Si sentiva serena, circondata da tutto quel verde. Se l’era meritata proprio quella giornata dopo tanto intenso lavoro. Quel posto le era sempre piaciuto, le faceva venire in mente immagini fuggevoli, ancora impolverate nella soffitta della sua mente; avrebbe voluto fissarle meglio quelle immagini, colorarle, darle più luce, come i riflessi del fiume…
Venne distolta da una strana sensazione di disagio: si sentiva osservata. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Un malessere strano s’impadronì del suo corpo: una vibrazione forte e sgradevole. Prese coscienza di trovarsi da sola in un posto isolato e rapida imboccò il sentiero che portava al parcheggio. Improvvisamente il rumore di foglie secche, proveniente da dietro un intricato muro di cespugli, la fece sobbalzare; qualcosa si mosse oltre le piante, si girò con i nervi tesi pronta a reagire. Vide un’ombra che si celava tra i rami; scattò come una molla, saltò un tronco e s’infilò tra gli alberi. Si sentiva inseguita da passi veloci che calpestavano i rami e le foglie con rapidità, ma il suo fisico agile distaccò quei rumori sinistri e raggiunse il parcheggio.
Tornò a casa che ansimava ancora: era sconvolta. Chiuse bene la porta d’ingresso, poi controllò le finestre e i balconi e, infine, si distese sul divano rabbrividendo.
Si svegliò completamente zuppa di sudore, il sogno era stato intenso e terribile. Sentiva ancora il fiato dell’uomo che le rimbombava nella testa e, stranamente, ne sentiva anche l’odore, uno strano odore che le ricordava qualcosa, ma che non riusciva a definire. Com’è possibile? – Pensò. Mise il latte sul fuoco, tirò fuori la scatola dei cereali e accese la televisione per il notiziario del mattino. C’era qualcosa nella sua mente che non quadrava, la sua percezione stava cercando di comunicarle qualcosa, ma cosa? – Si chiese.
L’uomo col microfono stava intervistando un tizio che mostrava un punto vicino alla riva del fiume, esattamente dove si trovava lei. Ma quando? Nel sogno o il giorno prima? Non riesco a capire – si disse. Alzò il volume del televisore, ma l’intervista era finita.
Accese il computer e si collegò sul sito di un quotidiano. «All’alba di questa mattina è stato trovato il corpo, non ancora identificato, di una donna nuda. Il cadavere era nel fiume a poca distanza dalla riva. La donna aveva segni di violenza lungo tutto il corpo». La puzza di gas la fece emergere dallo strano torpore in cui era caduta; corse in cucina, ma urtò il mobile e fece cadere una cornice, si fermò solo un attimo e poi continuò; girò la manopola del gas e aprì il balcone; prese uno straccio e pulì velocemente il latte che si era riversato sul fornello; richiuse il balcone e tornò indietro a raccogliere la cornice: la foto la ritraeva sorridente con una gardenia nei capelli e con in braccio il suo gatto. Chissà dove sta Sciùsciù, è da ieri che non lo vedo – pensò. Passò il resto della giornata alla ricerca di notizie sulla morte della donna del fiume. La polizia non era ancora riuscita a identificarla; le uniche notizie certe erano che era stata violentata e che poteva avere dai venticinque ai trent’anni, altro non si sapeva, anche perché il corpo era in avanzato stato di decomposizione e il viso era stato martoriato dai topi. Ormai era ossessionata da quel delitto: passava le ore ascoltando telegiornali e scandagliando internet alla ricerca di informazioni sull’assassino. Il terrore si trasformò in odio, un odio profondo che la tenne sveglia tutta la notte, china davanti al monitor a scrutare nella rete in cerca di tracce. Le immagini del corpo di quella povera donna le saettavano nella mente come tanti flash; era come se la morte di quella giovane la coinvolgesse in prima persona. L’alba la sorprese addormentata con la testa sulle braccia distese davanti al monitor. Si alzò e si diresse in cucina; prese la scatola dei croccantini per Sciùsciù, ma vide che la ciotola del gatto era ancora piena. Si versò un bicchiere di latte direttamente dalla bottiglia presa dal frigo. Tornò alla scrivania e avviò il computer; era ancora in piedi mentre aspettava che la pagina diventasse leggibile. Il bicchiere le cadde di mano con un rumore che rimbalzò fin dentro la profondità del suo essere: «La donna del fiume ha finalmente un volto». L’immagine sorridente di lei con una gardenia nei capelli e con in braccio Sciùsciù invase il monitor.
I vapori saturavano la grotta condensandosi in gocce sotto la volta che, gravide, cadevano di tanto in tanto. L’uomo galleggiava leggero lasciandosi portare dalla piccola corrente creata dal getto d’acqua che sgorgava da un’anfora incastrata nel muro appena sopra la vasca. Qualcuno si era preoccupato di profumare l’acqua con essenze di eucalipto e alloro, più un altro profumo che non riusciva a identificare. Si sentiva avvolto in un limbo benefico. Era come se fosse lì dalla nascita, anzi, da molto prima. Gli sembrava come se il tempo stesse decidendo se continuare il suo corso o fermarsi a contemplare la scena, fissandola in un tempo senza tempo. Un piacevole calore gli faceva scorrere stille di perle lucenti che gli scivolano lentamente lungo il viso gocciolando nell’acqua. Sulla parete piccoli pezzetti di maiolica creavano un elaborato mosaico con scene di ninfe velate e ancelle con anfore e ghirlande di fiori, con piccole sorgenti che s’immettevano in una vasca simile a quella in cui si trovava l’uomo. Il tutto era incorniciato da linee ondulate di disegni moreschi che davano l’aspetto di un oriente antico e misterioso.
Le ancelle raccoglievano l’acqua sorgiva in piccole anfore disegnate delicatamente e, dopo averle profumate di oli fragranti, le versavano lungo il corpo delle ninfe – appena coperte da sottili veli di mussola. Alcune di esse si rincorrevano in cerchio saltando e danzando, per poi immergersi allegre nella piscina. Le voci gli giungevano chiare, contornate da fruscii, sciacquii e risolini allegri. Una melodia sconosciuta si fece strada, inerpicandosi delicatamente lungo il soffitto, per poi degradare lungo le pareti, fino a galleggiare sull’acqua.
Lei comparve da dietro la colonna incamminandosi lungo la vasca: il tessuto che l’avvolgeva ondeggiava spinto dall’andamento sinuoso delle anche. Si soffermò un attimo sorridendogli e poi s’immerse – mentre l’acqua si apriva al suo passaggio, per poi richiudersi alle sue spalle – in un liquido abbraccio contornato da lievi mulinelli, che le accarezzavano le cosce mentre avanzava. Sulla parete le ninfe li osservavano e ammiccano con sorrisi complici e piccole spinte dei gomiti. L’uomo rimase sdraiato sull’acqua, mentre veniva lambito dalle piccole onde create da lei, che era appena emersa al suo fianco. Le mani si toccarono con dita avide e curiose, poi le labbra si sfiorarono strisciando sulla pelle madida del sapore termale di sorgente calda. Infine le membra si unirono – aderendo perfettamente – in un ripetitivo e continuo orgasmo. Fino a quando un canto leggero in una lingua ancestrale iniziò a seguire il ritmo dei loro corpi. Fino a quando la melodia saturò l’ambiente. Fino a quando il tempo scordò il passato e abbandonò il futuro. Fino a quando dimenticò se stesso.
Era buio, l’inserviente vide il corpo galleggiare immobile con la faccia sotto e le braccia allargate. Si precipitò nella vasca con la speranza che l’uomo fosse ancora vivo. Ma il suo cuore s’era fermato già da un pezzo. “Dio”, pensò. “E’ il terzo che muore in un mese”.
Mentre sollevava il corpo appoggiandolo sul pavimento, il suo sguardo cadde sulla la scena lungo la parete – appena illuminata da una cono di luce soffusa. “Strano” pensò. “Eppure quella ninfa me la ricordavo nascosta dietro una colonna”.