C’era una volta un principe azzurro dal colore perfetto con un bel cavallo bianco anch’esso perfetto. Insomma due cose perfette.Un giorno una fanciulla vide il principe giungere con il suo cavallo e lesta s’addormento al centro della strada. Stupefatto il principe si fermò a osservare i lineamenti di quella giovane donna che russava senza ritegno. E allora si disse: “ Se bacio questa giovane fanciulla lei si sveglierà e vivremo insieme felici e contenti. E tutte le sere sarò costretto ad addormentarmi prima di lei”.
Whisky
Apro la porta della camera da letto, l’aria pesante m’assale; il puzzo di whisky rancido si fa strada libero verso l’esterno; neanche lui riesce a starti vicino. Il tuo petto si alza e s’abbassa come un mantice che rantola rumorosamente; ti mordi il labbro inferiore lasciandovi profondi segni esangui; hai la fronte corrugata da molteplici linee imprecise, intanto che continui a girarti e rigirarti su tutta la superficie del materasso. Sei con le tue ansie adesso, le tue paure, i tuoi incubi. Quanti incubi dovrai ancora fare? Quanto dolore dovrai ancora seminare? Quante incertezze lascerai ai tuoi figli? Quanto ti rimarrà ancora da vivere?
Neanche questa volta mi va di mettermi a letto vicino a te, ormai sono mesi. Apro il divano letto, mi sdraio e lascio scorrere i pensieri lasciandoli fare il loro corso, finché non sprofondo nell’abisso.
Eppure eri cosi bella.
As time goes by
Si tolse i sandali avviandosi lungo la battigia – voleva godersi quello scenario tutto d’un fiato. Il sole aveva tinto di rosso la superficie del mare in quel caldo crepuscolo estivo; stranamente, a quell’ora, la spiaggia era deserta, c’era solo la sagoma di un pescatore seduto sul confine asciutto della sabbia che rammendava una rete più vecchia di lui.
Finalmente s’incontravano: si conoscevano da una settimana, ma era la prima volta che si vedevano da soli. Riconobbe il profilo di lei sullo sfondo rosso del cielo e accelerò il passo, come se volesse accorciare i suoi cinquant’anni. Lei lo vide e avanzò incerta, anche i suoi pensieri erano incerti, tutta la situazione le sembrava incerta. L’ultima storia le aveva lasciato una ferita profonda ed era impaurita: vent’anni di differenza sembravano una lunga striscia d’asfalto infinita. Si guardarono negli occhi, lui era impacciato, riuscì a pronunciare solo un semplice «Ciao». Lei gli rispose con un sorriso poco convinto; era intimorita, ma quell’uomo le piaceva, ne era affascinata; nessuno l’aveva mai trattata con tanta dolcezza.
«Bella questa camicia, ti dona», disse lei per rompere il silenzio.
«L’ho scelta apposta per l’occasione», rispose lui sorridendo.
Si avviarono verso un piccolo bar di legno col tetto di palme, mentre la musica di “As time goes by” si diffondeva fin sopra il mare.
Lui continuava a guardarla con un misto di timore e speranza, indeciso se dichiarare i suoi sentimenti sin dal primo incontro.
«Guarda quel gabbiano», disse lui indicandolo «sembra che sia alla perenne ricerca di qualcosa».
«Cerca solo del cibo», rispose lei.
«No, non guarda sul mare, ma verso l’orizzonte», ribatté lui.
«Qual è la differenza?» Chiese lei.
«Cerca una compagna perduta», rispose lui sorridendo.
«E tu? Anche tu cerchi una compagna?» Domandò lei, osservandolo.
«Ogni uomo deve avere una sua compagna», rispose lui.
«Questo nessuno lo può negare», disse lei.
«E’ sempre la stessa vecchia storia», continuò lui.
«Sì, lo so, l’amore, l’odio, la vita la morte… », disse lei, guardando più lontano del gabbiano.
«Anche la donna ha bisogno dell’uomo», l’interruppe lui.
«Devo andare», disse lei alzandosi.
«No, aspetta… ti rivedrò ancora?» Chiese lui, mentre con la mano cercava di trattenerla.
«Forse, col passare del tempo… », rispose lei, incespicando nelle sue incertezze.
La crepa
Ecco, ti sento arrivare: entri senza curarti di quello che c’è intorno, il mento rivolto verso l’alto e gli occhi che guardano lontano.
I tacchi percuotono il pavimento scandendo la lunghezza del corridoio, mentre il tintinnio delle chiavi dà il tempo ai passi. Ti affacci alla porta, mi guardi, giri le spalle e vai in bagno; sento l’acqua che scorre, suoni ovattati, silenzi voluti, bisbigli clandestini. Poi la porta del bagno si apre e appari nel vapore col tuo asciugamano rosa intorno al corpo; vai in camera da letto; rumori già conosciuti m’arrivano attutiti: il tonfo dell’anta scorrevole dell’armadio, il secondo cassetto del comò che stride da quando l’abbiamo comprato, grucce che urtano, fruscii di stoffa. Ed è come se vedessi un susseguirsi di istantanee. Dopo un po’ il tuo profumo si diffonde per la casa. Mi giro, so che stai sulla porta, mi guardi di nuovo, ti allontani; di nuovo i tacchi, li conto, e la porta sbatte. Guardo l’orologio, è tardi, mi metto a letto, osservo il soffitto: quella sottile crepa si allunga da quando abbiamo comprato casa.
Mi giro sul fianco; domani è un altro giorno.
La fine
Le masse d’aria cambiarono il loro corso senza preavviso e un lungo silenzio ammantò il mondo. Una luce violacea si diffuse nel cielo a est, attraversando rapidamente l’oriente e diffondendosi, anticipatamente, nella zona d’ombra a occidente. Fiocchi di neve iniziarono a cadere su Timbuctu dalle prime luci dell’alba. Alcuni Tuareg in partenza per il Sahara guardarono il cielo smarriti, cercando di capire cosa fosse quella strana poltiglia bianca. Il contrasto tra il rosso del deserto e il bianco della neve creava una frattura visiva bizzarra, poi la tormenta di neve copri tutto in una morte bianca.
A cinquemila miglia di distanza, su una piattaforma petrolifera, alcuni uomini stavano tirando dei cavi di tensione; improvvisamente un rumore assordante li fece girare, ma non ebbero il tempo di meravigliarsi. L’onda aveva superato di gran lunga l’altezza della struttura in metallo e della piattaforma rimasero solo alcuni monconi spezzati.
Le calotte polari sprofondarono rapidamente nell’oceano e inondarono le coste del mare del nord distruggendo i villaggi dei pescatori.
L’Antartide venne spogliata del suo manto bianco nel giro di poche ore, esponendo all’aria una geologia nascosta da ere di ghiaccio.
Incendi incomprensibili devastarono la tundra Siberiana creando colonne di fumo gigantesche che invasero il cielo oscurandolo completamente.
Le città europee furono colpite da tremende scosse telluriche che aprirono canyon enormi nel suolo inghiottendo i grandi monumenti del vecchio continente.
I ghiacciai perenni dell’Himalaya si sciolsero con la rapidità di un cubetto di ghiaccio al sole d’agosto, formando fiumi inarrestabili che allagarono gli altopiani del Nepal travolgendo Kathmandu.
Tempeste di grandine si abbatterono nelle zone desertiche del Gobi, mentre ad appena seicento chilometri, nella città di Pechino, la temperatura superò i quaranta gradi all’ombra.
Nelle zone tropicali gli alisei invertirono la direzione aumentando d’intensità. Cosicché venti impetuosi devastarono gli arcipelaghi sradicando la vegetazione e inondando i centri abitati.
Onde gigantesche attraversarono gli oceani come treni impazziti, sommergendo tutto quello che incontravano sul loro cammino. Superpetroliere di cinquecentomila tonnellate ruotavano su se stesse, sopraffatte da frangenti alti come montagne.
Gli aerei iniziarono a cadere giù come mosche dopo una spruzzata d’insetticida, schiantandosi al suolo.
Nelle grandi metropoli del nord America i grattacieli implosero riducendosi in cumuli di cemento sottile che saturò l’aria di una polvere mortale.
L’umanità fu sopraffatta: nessun essere vivente sopravvisse. E la Terra finì.
Le luci s’accesero senza neanche aspettare i titoli di coda, la sala era quasi vuota: era l’ultimo spettacolo e c’erano poche anime. L’uomo rimase ancora seduto qualche secondo osservando lo schermo bianco. Poi andò via.
Il giorno dopo la cassiera del cinema leggendo il giornale nella cronaca interna, fu colpita da un articolo che riportava il suicidio di un uomo sparatosi in bocca con in mano un biglietto del cinema.
Sogni nell’aria
Lo sai come si fa a esorcizzare le paure? Nemmeno io lo so, che di paure ne ho avute tante, e non credere che adesso non ne abbia. A volte tutto sembra così aleatorio, così incerto, che par d’esser sempre vissuto in questo modo: in questo limbo che m’avvolge cullandomi dolcemente col suono della tua voce. Ti spio da lontano, cercando di carpire i tuoi respiri, di rubarti qualche sguardo distratto, mentre le tue mani dipingono sogni nell’aria, e i tuoi piedi accarezzano il suolo intimidito dai tuoi passi. Sei avvolta nei tuoi pensieri; ammantata da flussi mentali invalicabili. A volte dai l’impressione di cercare la luce dove c’è il buio e non ti accorgi che sei tu la luce; innaffi terreno sterile trascurando i germogli che crescono dentro di te. Ti graffi la mente con vane illusioni, senza anestetizzare le tue paure; e dai l’impressione che di paure non ne hai. Non è così: respingi la mano, ma ti aggrappi allo sguardo. Celi le tue paure dietro mura di sicurezze, circondate da fossati di disinvoltura. Senza accorgerti che le mura sono trasparenti e i fossati piccole depressioni nel terreno.
Vorrei tanto toccarti, per essere certo che esisti veramente. Ma so che un giorno volerai via, e non voglio che tu voli via.
Per il momento lascio i miei pensieri al sole, sperando che mi si asciughino le lacrime.
Viso di stoffa
Lo so dove sei andata. Ci sei andata altre volte, ma non serve; cerchi di alleviare i tuoi rimorsi chiudendoti in una stanza spoglia di un motel, coperta solo da un misero accappatoio che sembra un saio. Ti vedo, sul bordo del letto a ritoccarti il viso col portacipria di Swarovsky; è la tua natura, la tua essenza, la tua contraddizione. Io so cos’hai dentro, lo percepisco anche a distanza; ti nascondi a te stessa, ti ammanti di finto fatalismo, di responsabilità indotte. Esci da casa sorridendo a tutti e salutandoli con cordialità mentre i tuoi occhi brillano di un’altra luce. C’è un conflitto enorme dentro di te, complicato dalla tua presunzione di poter gestire tutti con il tuo viso di stoffa. Lo hai lavato troppe volte ormai: il tessuto si sgrana, devi indossarne un altro. Puoi comprarne uno nuovo, ma hanno messo i saldi. Saresti uguale agli altri.
Sei misera, ma non sei degna di pietà. La tua anima si perderà, continuerà a vagare finché il tempo cesserà. Sarà la tua nemesi. Mi hai reso schiavo della tua bellezza manipolando la mia mente come un pezzo d’argilla. Hai costruito un vaso e poi l’hai fracassato, riducendolo in mille pezzi. Li sto ancora raccogliendo. Molti sono inutilizzabili. A che serve ricostruirlo…
Neanche lui riesce a essere più misero di te. Lui che cerca di soddisfare il tuo corpo che reclama sesso mentre la tua mente ci gioca; mentre lo soggioghi con le tue malìe. Lui che è convinto di condurre il gioco. Che uomo stupido… Ti sei procurata uno stallone da monta, ma non sa correre: non è di razza. Con lui ti è più facile; la sua intelligenza è inversamente proporzionale alle sue prestazioni fisiche, mi dicesti. E io cercando di fare l’indifferente ti chiesi di cambiarti il vestito, quella sera del ricevimento. Non è importante cosa indossi, ma come lo indossi, dicesti.
Sì, vinci anche in questo: l’indumento non ti veste, sei tu che vesti lui. Nessun uomo ti veste, nessuno uomo ti vestirà mai.
Lui sarà arrivato ormai, starete a letto iniziando la vostra danza di guerra. Anche questo me l’hai detto tu. I preliminari sono come una danza di guerra intorno a un grande falò di passioni. Ricordi? Eravamo in macchina. Parlavi e il falò si rifletteva dai tuoi occhi, mentre dentro di me un rogo bruciava inarrestabile. Non risposi: avevo paura che smettessi di raccontarmi di voi due. Dopo un po’ passasti ai particolari. Eri precisa nelle tue descrizioni, come se ne stessi parlando con un’amica. Sembravi posseduta da una strana suggestione, ma non del tutto. Mi spiavi con la coda dell’occhio cercando di capire se mi stessi eccitando. Un gioco malefico il tuo. Non contenta, la tua mano iniziò ad accarezzarmi l’inguine. Fermati! Mi dicesti. Accostai e mentre osservavo il traffico notturno saziasti la tua sete nutrendoti della mia sostanza. Quella notte a letto ti cercai. Non adesso, mi dicesti girandoti dall’altro lato.
I giorni passavano sulle nostre vite, c’incontravamo sempre meno in casa, tranne la mattina. Cercavo di non pensarci, mi dicevo che presto sarebbe cambiato. Una sera, un collega di lavoro mi portò in un bar; erano giorni che insisteva. Era un bar di single; sagome scure; uomini e donne disillusi. Lei era simpatica; appena uscita da una storia sgradevole, ed era piena di grandi sogni. Non ricordo come, ma mi svegliai nel suo letto la mattina successiva. C’era un biglietto che mi invitava a rilassarmi come se fossi stato a casa mia e di farmi il caffè. Quando penso a lei mi tornano in mente solo i suoi occhi, occhi limpidi come acqua che scorre.
Dove sei stato stanotte? Mi chiedesti. E io per vendicarmi ti raccontai tutta la verità, tranne i particolari che m’inventai di sana pianta. Il tuo viso s’infiammò, una strana luce si formò nei tuoi occhi da gatta selvatica. Ti avvicinasti e strusciandoti cominciasti a gemere. Lo facemmo lì sulla sedia e poi continuammo nel letto fino a notte inoltrata. Non voglio dividerti con un’altra, mi dicesti alla fine. Andai in bagno e rimasi un po’ a guardarmi nello specchio e quando tornai stavi già dormendo. Era tornato tutto come prima.
Ritornai in quel bar, non so perché, ma ci tornai. Era presto, c’erano solo un paio di persone appoggiate sul lungo bancone. Chiesi al barista se l’avesse vista, ma non ricordava di chi parlassi. Fermai un taxi e mi feci portare a casa sua. Non ricordavo l’indirizzo, ma la zona sì. Una signora mi disse che era partita per l’Africa. Stava realizzando uno dei suoi sogni allora. Passai la notte girando senza meta per la città. Tornai a casa sperando di suscitare in te altro interesse, ma nessuna luce si formò più in quei tuoi occhi da gatta selvatica. Hai passato di nuovo la notte fuori? Mi domandasti, dandomi un bacio sulla guancia. E senza attendere risposta chiudesti la porta alle tue spalle.
Perché non smetti di vederlo, ti ho chiesto stamattina in cucina. I tuoi occhi mi guardavano da sopra il bordo della tazza del tè. Ti prometto che da domani non lo rivedrò più. Da domani.
Sto cadendo dal dodicesimo piano chiedendomi se lo rivedrai anche domani.
Sul marciapiede
Guardò fuori dalla finestra: i profili delle case iniziavano a formarsi. Linee geometriche che riprendevano il loro posto sullo sfondo del cielo mentre le ombre si diradavano. Era l’inizio di un nuovo giorno; era la fine di una notte passata a trasformare i pensieri in parole. Chiuse la pagina: OpenOffice gli chiese se doveva salvare la pagina; cliccò su non salvare. Un’altra notte in bianco, un’altra pagina bianca. Distese la schiena e andò a farsi un caffè. Poi una doccia; si guardò nello specchio: c’era dell’ironia nello sguardo che gli rifletteva. Ma era solo una condizione esteriore, lo specchio non sapeva cosa c’era dietro quel viso. Forse neanche lui lo sapeva. Scese nel garage e prese la bici, accese l’iPod e partì. Il cielo era ormai chiaro, di un chiaro azzurro. Il colore gli ricordava un quadro di Hopper, ma il titolo non gli veniva. Si diresse sul lungomare: le prime macchine con gli anabbaglianti ancora accesi s’incrociavano sulla strada deserta. Un senso di desolazione gli riempì la testa: non era amarezza, non era nemmeno tristezza, era vuoto. Era come in una stanza satura di aria compressa, e lui vi galleggiava dentro. Come uno spazio privo di materia, ma colmo di antimateria. Non trovò appigli, vagò per lo spazio limitato da confini che non riusciva a toccare, mentre girava su se stesso in assenza di gravità. Il buio gli stringeva il cuore, incombendo su di lui e le sue paure; rivoltandolo come un calzino. Lo spazio si estese, ma non lo vedeva: lo percepiva. Venne sospinto verso qualcosa che non aveva ancora compreso; qualcosa di intangibile. Una strana consapevolezza gli lambiva appena i confini della percezione. Iniziò a vedere una fievole luce lontana, molto lontana. La corrente lo portava in quella direzione, ma sembrava tremendamente lenta. Provò a muovere le braccia come se volesse nuotare verso quella fonte di luce che, era certo, fosse una specie di porta d’uscita. Un gate verso la realtà. Una strana nenia cominciò a farsi sentire. All’inizio sembrava modulata, armoniosa; poi si sovrappose un insistente e fastidioso suono molesto che gli spaccò i timpani. Ritorno in sé. Era al centro della strada e una macchina lo scaraventò di nuovo sul marciapiede.
Il mondo è grande
Serro la finestra: mi nascondo al mondo, mi chiudo nel guscio. Sono un paguro. Sono un’ombra proiettata su un muro; ma devo affrettarmi. Vorrei chiamarti, anzi no, vorrei invocarti, vorrei averti… vorrei viverti. Sono roso da una passione incontenibile. Dimmi quale vetta devo scalare; quale oceano devo navigare; quale deserto devo attraversare…
Chiudo la porta, ho la testa bassa, non cerco niente sul pianerottolo, è solo vergogna, vergogna di me. Ho le spalle curve: è un peso opprimente quello che mi trascino. Il peso dei miei pensieri: sono tanti, ormai non riesco più a contarli. Sono una folla che straripa dalla mia mente. Incontenibili, irrefrenabili. Corrono tutt’intorno fino a quando non diventano un unico vortice. Un possente uragano. Sono preso dalle sue spire assordanti.
Vorrei ringraziarti per avermi regalato momenti di delicata illusione, di felice speranza, di sognante aspettativa. Mi accontento, non sono nelle condizioni di pretendere di più.
Eppure…
Devo affrettarmi, il mondo è grande.
Shark!
Stamattina sulla spiaggia di Marsa Alam, ho intravisto una pinna grigia che si muoveva sull’acqua a poca distanza da un tizio che faceva il bagno. “Shark!” Ho gridato “Shark!” Gesticolando verso il tizio, che mi guardava senza capire. “Shark!” Ho ripetuto, indicandogli alle sue spalle. Ma lui stava lì immobile. Sono entrato in acqua, ho messo le mani a coppa e con tutto il fiato che avevo in corpo ho gridato: “Shaaaark… sei una testa di cazzo!” Gli ho detto, ormai esasperato.
“Testa di cazzo sarai tu figlio di puttana!” Mi ha risposto il tizio.
Mentre lo squalo si è allontanato offeso.