Mi sveglio, sei lì davanti a me; le nostre gambe s’incrociano in una strana posizione: avvinghiate in una specie di incastro a forbice, con i corpi distesi lungo le due estremità del sofà. Sei nuda, ma è come se lo fossi sempre stata. Mi guardi con quegli occhi rubati a chissà quale gatto randagio e sorridi. C’è una luce che ti accarezza il viso: un perfetto alone di chiaro scuro che ti ammorbidisce ancora di più i lineamenti. Mi abbevero della tua figura come un assetato che ha appena trovato una fonte d’acqua celata tra le dune. Sono preso completamente dal tuo corpo, avvinto dalla delicatezza delle tue curve. Ti accarezzo pian piano e percorro il piccolo rigonfiamento di una vena che si perde tra le dita del piede. Mi guardo intorno e ho la sensazione che il tempo ci stia aspettando. Si è messo un po’ in disparte, e con discrezione aspetta un nostro segnale per continuare la sua corsa. Ti bacio l’alluce – delicatamente, senza fretta tanto il tempo aspetta. Spingo le mie labbra lungo un percorso sconosciuto soffermandomi sulla piccola depressione della caviglia. Prendo il tuo piede, l’appoggio sulla spalla e comincio a massaggiarti la gamba fin dove le mie braccia possono arrivare. Lentamente i tuoi sospiri riempiono la stanza rimbalzando dolcemente sulle pareti come tanti palloncini colorati. Non ci muoviamo, restiamo così, godendo solo del tocco delle nostre carni.
Preda delle acque
La barca era piccola, troppo piccola. La costa era lontana; là, in fondo, oltre il buio.
O forse no? Forse la costa non c’era, forse non c’era niente oltre quell’oscurità immutabile? Forse c’erano solo voci sorde di disperazione? Bocche aperte prive di suono che chiedevano aiuto. Ma lui come poteva aiutarle? Era preda delle acque. Curvò le spalle alle tenebre intorpidite dalla sua incertezza; sentiva un grosso peso su di sé prodotto da una gravità opprimente. Cercava di ragionare, ma appena gli si formava un concetto logico, una mano diafana glielo ghermiva dalla mente.
Il vento soffiava a vortici insistenti e la barca non riusciva a trovare la rotta; le vele a brandelli creavano forme stridenti, i cui lembi tremavano nell’aria di quella notte eterna e silenziosa.
Era al timone da molte ore e da molte ore non dormiva. O forse erano giorni? Sapeva che se lasciava il timone, la barca si sarebbe capovolta in quel mare nero. Onde gigantesche lo superavano frangendo e spazzando il ponte da poppa a prua in un silenzio assordante. Ogni tanto qualche gorgo maligno ghermiva la barca facendola girare su se stessa. Sentiva freddo, molto freddo. Provò a cantare, ma le parole gli si gelavano sulle labbra appena uscivano dalla bocca frantumandosi ai suoi piedi. Mentre il vento gli strappava pezzi di pelle dal viso e dalle mani trasformandoli in mille coriandoli traslucidi. Finalmente un suono emerse da dietro le tenebre e si fece strada prepotentemente sopra la notte. Invase l’aria; attraversò lo scafo; s’infilò nel suo corpo e s’impossessò della sua coscienza. Si sedette al centro del letto; il telefono continuava a squillare come se avesse fretta di essere ascoltato.
Si alzò e andò a rispondere. Non c’era nessuno dall’altro lato del filo.
Solo l’ululato del vento.
Polvere d’ombra
Un giorno il Lampionaio bussa alla porta dell’Alchimista.
– Alchimista, ho un problema grave, solo tu mi puoi aiutare.
– Cos’è che ti assilla Lampionaio?
– E’ da qualche tempo che perde la polvere.
– Chi? Di quale polvere parli?
– La polvere della mia ombra, Alchimista.
– Sembra una cosa seria, siedi e racconta.
– Dunque, l’altro giorno, mentre potavo le rose vicino al muro di casa, ho notato una strana polverina scura sui petali. Il fatto mi ha sorpreso, perché ho molta cura delle mie rose, e non mi ricordavo di averla mai vista in precedenza quella strana cosa. Prima ho pensato che fosse polvere dell’intonaco, ma era troppo scura; sarà stato lo spazzacamino che passando ha fatto cadere della polvere, mi sono detto, ma lui viene una volta al mese, e sono quindici giorni che non lo vedo. Ieri, al tramonto, sono uscito da casa con questo enigma che mi gironzolava in testa, e quando si è materializzata la mia ombra, guardandola meglio, mi è sembrata un po’ smagrita. La cosa sul momento non mi ha insospettito, perché ho pensato che forse con l’arrivo dell’inverno stava diventando più snella. E così abbiamo fatto il nostro giro abituale per accendere i lampioni. Stamattina all’alba, quando l’ho salutata, mi è sembrato di vedere un piccolo velo di polvere uscirle mentre si allontanava. Quando poi sono andato a potare le rose ho rivisto quella polverina strana di nuovo sui petali e sono rimasto di sasso, perché a quel punto ho realizzato che è là che l’ombra si distende quando torniamo. Devi sapere che a lei piace molto il profumo delle rose. Insomma, osservando meglio, ho trovato tracce di quella polverina un po’ dovunque lungo il muretto del roseto. La scoperta mi ha spaccato il cuore Alchimista. Mi sento infelice, aiutami ti prego. Dimmi, cosa posso fare per la mia ombra?
L’alchimista si alza e, con le mani incrociate dietro la schiena, inizia a gironzolare per la stanza; ogni tanto si ferma, porta l’indice alla tempia e poi riprende a rimuginare di nuovo. Dopo aver quasi consumato completamente il tappeto sul pavimento dice:
– Alza i piedi Lampionaio!
Un grosso buco sotto la scarpa sinistra faceva bella mostra nella suola del Lampionaio.
Guardo fuori…
Guardo fuori: i profili delle case iniziano a riprendere le forme.
Linee geometriche che ritrovano l’identità sullo sfondo di un cielo che schiarisce. Chiudo la pagina, Word mi chiede se deve salvare; no, non voglio salvare quello che ho scritto. Preferisco lasciarlo nell’aria.
Il Libro
Quel pomeriggio, prima di tornare a casa, passò per la libreria. Entrò e si avviò direttamente al reparto fantasy. Amava i libri fantasy: leggeva solo quelli. Anche se era una persona concreta, e non credeva nelle fate, nei maghi, elfi… li amava e non poteva fare a meno di leggerli. Non andava spesso in libreria, ci andava ogni tanto. Ogni tot settimane, dipendeva da quanti libri riusciva a leggere ogni tot settimane. Perché?Perché quando passava alla cassa, spesso si vergognava di far vedere a gli altri che leggeva quel genere di libri. Era un uomo timido, solitario.
Era in fila in attesa di pagare, quando venne spintonato da una donna molto attraente.
«Scusi… scusi tanto» disse la donna.
«Niente… ehm, stia tranquilla» rispose lui porgendole i libri che la donna aveva fatto cadere insieme ai suoi.
«Ecco, tenga… questo è suo» disse la donna allontanandosi in fretta. Mentre lui la guardava affascinato.
«Sono ottantasette euro signore… signore?» Disse la cassiera.
«Ah, sì, mi scusi… sì» rispose lui, tornando in sé.
Strano, Pensa Yago, l’incipit di questo libro sembra identico… Gira lentamente la pagina e continua a leggere.
Passò prima per la lavanderia e poi andò a casa; lungo le scale incontrò la signora del primo piano…
Yago si ferma di nuovo, guarda la pagina e: No, non è possibile mi sto lasciando suggestionare, pensa. Ma invece di continuare, parte di nuovo dall’inizio del racconto. Supera la parte letta in precedenza e continua.
… la signora Anna, una ficcanaso senza eguali. Entrò in casa accese lo stereo, programmò una compilation di jazz e andò in cucina per far scongelare la cena. Dopodiché aprì la busta della libreria, tirò fuori i libri…
Yago lascia cadere il libro a terra inorridito. Si allontana da esso come se avesse visto un fantasma. Si guarda intorno, convinto che fosse uno scherzo, una specie di candid camera. Sicuramente adesso usciranno fuori e applaudiranno per lo scherzo che mi hanno fatto, pensa. Ma sa benissimo che non può essere così: non avrebbero avuto lo spazio. E poi perché proprio a lui? Cosa aveva di speciale lui? Con cautela si avvicina di nuovo al libro e riapre la pagina.
… e vide che ce n’era uno che non aveva scelto. Lo prese e ne lesse il titolo – Le fantasie di questo mondo – di Morgana Estro (tratto da una storia quasi vera).
No! Grida Yago, non è possibile! Chiude il libro, ma dopo qualche secondo prende coraggio e continua a leggere.
… Lesse la quarta di copertina scritta dalla stessa autrice: – Spesso da questa parte del mondo, cioè dalla parte reale, succedono cose che dall’altra parte, cioè dalla parte irreale, non immaginano nemmeno. Quale sarà la realtà? Questa o quella – Morgana Estro.
«Sicuramente era di quella donna con la quale mi sono scontrato» disse sorridendo. E iniziò a leggerlo.
Quel pomeriggio, prima di tornare a casa, passò per la libreria. Entrò e si avviò direttamente al reparto fantasy…
Una strana sensazione di disagio comincia ad avvolgerlo; tuttavia continua a leggere finché non arriva esattamente dove si trova in quel momento. Ma prima di girare la pagina si ferma e posa il libro. Ha la testa che gli ronza come uno sciame d’api, ed è bombardata da una serie infinita di domande. Di cui una sola è la più importante, la più rilevante; forse l’unica a dover pretendere una risposta immediata. Come fa quel libro a descrivere esattamente quello che gli sta succedendo?
Ha paura di voltare pagina; non riesce a credere a quello che gli sta accadendo. Titubante guarda il libro appoggiato sul piccolo tavolino vicino alla poltrona; è tentato di riaprirlo e girare pagina, ma non ne ha il coraggio. Continua a guardarsi intorno come se qualcuno lo stesse osservando. Si chiede più volte se gli stessero tirando un brutto scherzo. Improvvisamente comincia a girare per il piccolo appartamento e rovistare nei punti più nascosti, convinto di individuare tracce di qualcosa: telecamere, microfoni, ma non trova niente. Si accovaccia nell’angolo opposto e guarda il libro con angoscia; come se da esso chissà quale incantesimo si stesse per sprigionare. Poco dopo si alza e inizia a girare di nuovo intorno alla poltrona – tenendo sempre il libro sott’occhio. Poi si guarda le dita e rimane sorpreso: le unghie non ci sono più: se l’è mangiate. Ma la curiosità spesso riesce a sopraffare la paura, specialmente quando si tratta del proprio destino. Prende il libro e lo riapre; arrivato al punto dove si trova in quel momento gira la pagina e con sorpresa scopre che le parole sono senza alcun tipo di significato; un’accozzaglia di lettere messe una dietro l’altra senza coerenza: indecifrabili. Aspetta un po’ e poi lo riapre ancora, e poi di nuovo: più e più volte, ma la parte illeggibile rimane invariata.
La mattina dopo apre il libro e scopre che parte delle parole che non si leggevano la sera prima sono diventate comprensibili, fermandosi, poi, sempre nel punto della realtà temporale. Chiama in ufficio e dice che non si sente bene, poi prende il libro e si avvia verso la porta, ma passando davanti allo specchio si rende conto di essere ancora in pigiama. Torna indietro e s’infila velocemente una camicia e un paio di pantaloni. Incuriosito apre il libro e legge le ultime righe.
Chiamò in ufficio e disse che non si sentiva bene, poi prese il libro e si avviò verso la porta, ma passando davanti allo specchio si rese conto di essere ancora in pigiama. Tornò indietro e s’infilò velocemente una camicia e un paio di pantaloni. Aoutrndt af potfgatl dpfvestqaoton d gfl, dotgg, hs gerqh ssmgqotu, fdrbhfgayffd. Mgatdghisfryo; bhlogttabsujt…
Mentre scende le scale incontra la signora Anna del primo piano. Buongiorno Yago, non va a lavoro oggi? Gli chiede la signora Anna. Cosa glielo fa pensare? Risponde lui. Be’, ecco, non la vedo in giacca e cravatta, e quindi… Si faccia gli affari suoi ficcanaso! Risponde Yago, continuando a scendere velocemente le scale. Che villano! Dice la signora Anna molto sorpresa.
Yago esce sul marciapiede, si ferma e riapre il libro.
Mentre scendeva le scale incontrò la signora Anna del primo piano «Buongiorno Yago, non va a lavoro oggi?» Chiese la signora Anna. «Cosa glielo fa pensare?» Rispose lui. «Be’, ecco, non la vedo in giacca e cravatta, e quindi…» «Si faccia gli affari suoi ficcanaso!» Rispose Yago, continuando a scendere le scale velocemente. «Che villano!» Disse la signora Anna sorpresa. «Chi se lo sarebbe mai aspettato da una persona del genere, è sempre stato così gentile» continuò salendo le scale la signora Anna. «Di chi parli Anna?» Le chiese la sua vicina sul pianerottolo. «Di Yago, sai quello che abita al terzo piano?» Disse Anna. «Certo, lo conosco, quel tipo solitario; un tipo normale. Che ha fatto?» Chiese la vicina. «Mi ha dato della ficcanaso. Da lui non me lo sarei mai aspettata. E’ sempre stato educato, ben vestito…mah! A volte la gente impazzisce. E poi l’ho visto strano: aveva la camicia abbottonata male, la lampo dei pantaloni aperta e non si è fatto neanche la barba. Ciao carissima ci vediamo», disse Anna chiudendosi la porta alle spalle. Bhlogttabsujt.. lf potfgatl dpfvestqaoton labhlogtto rbhlogtte vbhlogtt assmgqotu.
Yago si tocca la barba, si tira su la lampo richiude il libro e va diretto alla libreria.
“E adesso?” Si chiese lei “Come la faccio continuare questa storia? In fin dei conti gli ho dato una bella personalità a questo tizio: un uomo normale, solitario, sconvolto da un libro misterioso, un libro magico. Gli ho anche dato un nome un po’ improbabile – Yago – che rimanda a sentimenti possenti come la gelosia… la gelosia. Sempre lo stesso problema”, si girò verso il telefono.
“Non vorrei farlo incontrare con la donna misteriosa: troppo scontato, e continuare con il gioco delle parole indecifrabili, rischierei di farlo diventare noioso. Ci vorrebbe un’idea, un’intuizione” si disse, girandosi di nuovo verso il telefono.
“Yago, Yago,Yago… ” ripeteva come un mantra.
Lo scampanellio della porta d’ingresso la fece tornare in sé, si alzò e andò ad aprire.
«Buonasera, cerco la signora Morgana Estro». L’uomo aveva un libro tra le mani.
Tu sei il bene e lui è il male
Pato entrò nel momento in cui lui svenne, se lo caricò sulle spalle e lo portò all’ospedale.
Afro si risvegliò nel letto dell’ospedale con la flebo che gli usciva dal braccio inerme.
«Come ti senti?» Sussurrò Pato.
«Come se fossi stato tutta la giornata sdraiato al centro dell’autostrada a farmi schiacciare da autoarticolati a dodici ruote» rispose con un mezzo sorriso l’amico.
«Questi attacchi sono diventati troppo frequenti, quando la smetterai di bere tirare coca e prendere psicofarmaci?» Disse Pato.
«Quando la smetterai di rompermi le palle ogni volta che vieni a casa mia?» Rispose Afro seccato.
«Veramente la casa è mia, tu sei un ospite» disse Pato divertito.
«Ma io ti pago l’affitto!»
«L’affitto l’hai pagato solo il primo mese, cinque anni fa, e sicuramente i soldi te li diede Evia».
«I soldi erano i miei, guadagnati con un lavoro… », disse Afro guardandosi intorno in cerca di qualcosa.
«Con quale lavoro? Ti conosco da trent’anni e non ti ho mai visto lavorare!»
«Basta mi hai scocciato con le tue litanie da prete spretato. Passami i vestiti che voglio andare via da qui!» Afro si era già staccato la flebo mettendosi a sedere sul letto.
«Fermo! Che fai? Ti devono fare gli accertamenti!» Esclamò Pato, avvicinandosi.
«Dài Pato mi sento bene, mi è passato tutto. Andiamo al Goose Neck a farci una bevuta, Cino sarà felice di rivederti»
«Cavolo ti sei appena ripreso, ti trovi nel letto di un ospedale e già pensi a bere? Sei pazzo!»
«Dai Pato, i vestiti, andiamo su! Ti offro un drink»: Afro non riusciva a prenderli, la stanza gli vorticava intorno senza sosta.
«Già te l’ho detto, se non la finisci ci rimetterai la pelle!»
«La pelle ce la rimetti tu se non mi prendi i vestiti, brutto stronzo!»
«Eccoti i vestiti. Ma la prossima volta che mi dai dello stronzo ti spezzo un braccio!» Gli urlò Pato, buttandoglieli addosso.
«Tu e il tuo karatè non mi fate paura… brutto stronzo!»
«Bah! E’ tutto inutile con te, solo tempo perso; dài andiamo, ma non al Goose Neck, torniamo a casa, sono stanco ho fatto dieci ore di aereo e ho un sonno tale che mi stanno sbadigliando anche le ossa».
«Pronto».
«Ciao, dormivi?» Chiese lei.
«Che ore sono?» Domandò Pato.
«Le nove», rispose lei.
«Le nove di sera?» Chiese incerto.
«Sì. Ho sentito Afro, mi ha detto che eri tornato… scusa ti ho svegliato?»
«Sì, ma hai fatto bene, era un brutto sogno… come stai?»
«Come una donna con due figlie piccole e un marito che pensa solo a fare soldi!»
«Non ti lamentare, hai due figlie bellissime e un marito innamorato. Cos’hai da rimpiangere?»
«Rimpiango la giovinezza, la spensieratezza, le nostre uscite serali: io tu e Afro a cazzeggiare tutta la notte. Questo rimpiango»
«Evia erano altri tempi, adesso abbiamo delle responsabilità, e… »
«Le responsabilità? Odio le responsabilità!»
«Anch’io, ma ci sono», disse calmo lui.
«Che fai stasera?» Chiese lei.
«Non ho programmi».
«Avevo pensato di vederci noi tre e passare una serata insieme, come ai vecchi tempi. Mio marito è fuori, torna mercoledì e le bambine sono da mia madre. Che dici?»
«Per me va bene».
«Bene. Tra un’ora ce la fai?».
«Sì. Il tempo di fare una doccia».
«Ok, passo a prenderti alle dieci. Afro ci aspetta al Goose Neck. Ciao», disse lei riattaccando.
Il Goose Neck si trovava vicino a degli studi televisivi, ed era frequentato da vari personaggi dello spettacolo: terreno di caccia personale di Afro.
La biondina entrò e si diresse verso il banco guardandosi intorno in cerca di qualcuno. Afro si avvicinò sedendosi sul trespolo a fianco a lei e ordinò da bere.
«Sbaglio o ti ho vista a Teleuno?» Domandò Afro con un sorriso ammaliante.
«E’ probabile. Perché, lavori anche tu lì?» Chiese lei voltandosi.
«No, ma ci vado spesso. Sono amico di Elio Tosti», rispose Afro.
«Il regista?» Domandò lei interessata.
«Sì». Ormai la tecnica era consolidata: si fingeva amico di un noto regista per adescare giovani attricette.
«Quindi sei qui per vederti con lui?» Chiese lei speranzosa.
«Dovevo, ma mi ha chiamato pregandomi di rimandare perché era molto impegnato», rispose Afro pronto.
«Ah… », disse lei un po’ delusa.
«Peccato perché riparto domani e torno fra tre mesi. Sai, il lavoro… ».
«Perché, che lavoro fai?»
«Faccio lo skipper professionista su barche da regata», rispose lui con disinvoltura: era un copione che conosceva a memoria.
«Oh!» Disse lei con una punta di meraviglia.
«Domani parto, vado in Inghilterra per una regata importante sulla barca del principe Carlo»
«Oh, il principe Carlo d’Inghilterra. Deve essere molto rischioso il tuo lavoro, in mezzo al mare, le onde, le tempeste, vero?»
«Sì, abbastanza, ma ormai ci sono abituato… senti ti andrebbe di andare a cena? Conosco un posticino carino… », disse lui.
«Beh, io veramente avrei un appuntamento, ma vedo che la mia amica non c’è, sai sono arrivata un po’ in ritardo… », rispose lei indecisa.
«Com’è la tua amica… di aspetto intendo?» Chiese lui, guardandola come un leone che aveva assestato la prima zampata alla preda bloccandole la fuga.
«Bassina con i capelli corti e neri… », rispose la preda con un filo di voce.
«Mi è sembrato di vederla uscire prima che tu arrivassi, sì, penso proprio che fosse lei»: ormai Afro non aveva più freni, si era procurato la selvaggina e si accingeva a divorarla.
«Peccato ci tenevo tanto a rincontrarla», disse la biondina non molto dispiaciuta. Afro le piaceva: un uomo affascinante con tante avventure da raccontare e a lei le avventure piacevano tanto.
«Allora andiamo?» Disse lui prendendola sotto braccio
«D’accordo ma solo la cena, nient’altro»
«Solo cena, parola di gentiluomo… », disse il leone, con una strana luce negli occhi.
«Sei uno schianto!» Disse Pato entrando e baciandola sulla guancia.
«Grazie anche tu», rispose Evia ricambiando il bacio.
«E questa macchina?» Chiese lui.
«E’ una Porsche Cayenne Turbo, me l’ha regalata mio marito il giorno del mio compleanno», rispose lei, immettendosi nel traffico del venerdì sera.
«Bella», disse lui senza interesse.
«Sì, bella e costosa. Vuoi guidarla?»
«No grazie, non ci tengo proprio».
«Dimenticavo, a te le automobili, le moto, i motoscafi, i vestiti costosi, non ti piacciono. Sei esattamente l’opposto di Afro».
«Per fortuna!» Rispose Pato.
«Quanto tempo ti trattieni?» Chiese lei, accendendosi una sigaretta con un vecchio Dupont d’oro.
«Pochi giorni, forse una settimana», rispose lui aprendo il finestrino.
«Oh scusa, dimenticavo che ti dà fastidio il fumo», disse lei spegnendo la sigaretta.
«Potevi fumare… ».
«E dopo dove andrai?» Domandò lei.
«In Australia».
«Bella l’Australia, ci sono stata anni fa insieme a un’amica, prima di sposarmi. In un’altra vita», disse lei, mentre le nocche delle mani sul volante sbiancavano.
«Che ti succede Evia?» Chiese lui, accorgendosi della tensione che l’avvolgeva.
«Niente le solite cose: figlie, casa, marito, shopping, palestra, estetista, analista, e qualche amante. Tutto uguale non è cambiato niente dall’ultima volta che ci siamo visti», rispose lei tutta d’un fiato, riaccendendosi un’altra sigaretta.
«Ma non parliamo di me, parliamo di te. Che farai in Australia?» Continuò lei frenando bruscamente a un incrocio.
«Parte un’altra tappa della regata intorno al mondo: la Sydney Ushuaia», rispose lui, felice di di aver puntato i piedi sul pianale dell’auto per evitare di essere catapultato contro il parabrezza nonostante la cintura di sicurezza.
«Ushuaia! E dove si trova?» Chiese Evia soffermandosi più del solito all’incrocio e collezionando una serie infinita di colpi di clacson che giungevano da dietro.
«A sud della Terra del Fuoco. Di fronte all’Antartide. Hai mai sentito parlare di Capo Horn?» Disse Pato facendole segno di proseguire.
«Sì, Capo Horn, ho letto da qualche parte che quando lo si attraversa è come essere in una specie di lavatrice».
«Be’, chi l’ha scritto non si è sbagliato di molto»
«E quando durerà la regata?»
«Dipende: un mese, forse più».
«Però questo sport ti fa bene».
«Perché?»
«Sei rimasto esattamente come eri da giovane. Per caso hai un ritratto in soffitta che invecchia al posto tuo?» Chiese lei scherzando. L’allusione al Ritratto di Dorian Gray era quasi calzante.
«Il ritratto sì, ma mi piacciono ancora le donne», rispose lui alludendo alla presunta omosessualità del personaggio di Oscar Wilde.
«Sai cosa è successo stamattina?» Disse Pato.
«Cosa?»
«Quell’invertebrato è stato colto da un altro attacco: l’ho trovato stamattina svenuto che puzzava come una cantina».
«Strano, non me ne ha parlato».
«Perché avrebbe dovuto? Tanto lo sa che t’incazzi. Ultimamente sta esagerando troppo, la cosa comincia a preoccuparmi».
Un velo di tristezza oscurò ancor di più i profondi occhi neri di Evia. Ma Pato senza curarsene continuò: «devi smetterla di aiutarlo, non dargli più soldi; gli rendi la vita troppo facile».
«Anche tu gli rendi la vita facile. Lo ospiti a casa tua e gli paghi le bollette!» Rispose Evia: alternando lo sguardo tra lui e la strada.
«Lo faccio solo perché mi controlla la casa, e poi le bollette sono intestate a me… ».
«Queste sono scuse, lo tieni sulla coscienza anche tu, come me!»
«Possibile che ogni volta che parliamo di Afro dobbiamo litigare? Sembriamo due genitori che discutono sul comportamento di un figlio scapestrato… che ironia!»
«Siamo arrivati!» disse lei, troncando il discorso.
Cino gli andò incontro tutto contento abbracciandoli e baciandoli contemporaneamente.
«Che piacere rivedervi ragazzi. Evia sei bellissima, ti trovo splendidamente. Bentornato amico mio quali terre hai scoperto con il tuo veliero?»
«Ciao Cino come stai?» Disse Evia.
«Nessuna terra nuova, solo terra usata amico mio», rispose Pato.
«Dài sedetevi che vi offro una cosa».
«Cino hai visto Afro?» Chiese Evia guardandosi intorno.
«L’ho intravisto dall’ufficio che parlava con una bionda che fa la comparsa a Teleuno. Ma adesso che ci penso non l’ho più visto da allora».
«Sempre lo stesso… » disse Pato: era certo che per quella sera Afro non si sarebbe più fatto vedere.
«Stronzo!» Fu il commento di Evia.
«Dài Evia lo conosci, non ci puoi fare affidamento… », disse Cino.
«Lo avevo pregato! Glielo avevo detto! Afro ti raccomando è tornato Pato, ho voglia di vedervi e passare una serata insieme a voi… bastardo!» Gli occhi di lei s’incendiarono di rabbia.
«Ci porta il conto per piacere», disse Afro al cameriere.
«Dài raccontami un’altra avventura», chiese la biondina estasiata.
«Be’ ci sarebbe quella del porto di Casablanca, ma fu una scazzottata», accennò Afro passandosi la mano tra i capelli.
«Dài racconta, racconta!»
«Stavamo nel porto di Casablanca sulla barca in attesa che altre due persone si unissero all’equipaggio. Dopo cena decisi di fare quattro passi per digerire un poco», iniziò a raccontare Afro versandosi l’ultimo residuo di una bottiglia di Chablis.
«Senza accorgermene mi trovai in una zona del porto molto malfamata e fui circondato da quattro brutti ceffi che avevano la ferma intenzione di sbudellarmi e impossessarsi del mio portafoglio», continuò lui ripassandosi la mano tra i capelli.
«Con molta calma cercai di fargli capire che non ero il loro tipo e che era meglio lasciarmi stare. Ma i signori non ascoltarono i miei consigli, anzi avanzarono tutti e quattro contemporaneamente verso di me. Misi le spalle al muro e attesi».
«Il conto signore» disse il cameriere.
Afro, con noncuranza, estrasse la carta di credito dal taschino e gliela diede.
«E poi?» Chiese la biondina in trance.
«Il primo mi attaccò da destra con un coltello lungo almeno venti centimetri. Mi spostai di lato bloccandogli il braccio con la sinistra e con la destra gli diedi un colpo alla nuca così», Afro mimò un colpo con il taglio della mano dietro la nuca di lei.
«Ohh! Ma conosci anche le arti marziali?» Disse la biondina con stupore.
«Si sono maestro di karatè e judo».
«Ohh! E dopo?» Chiese la biondina con un filo di voce.
«Il secondo mi mise una mano sulle spalle cercando di accoltellarmi. Gli feci una leva e gli spezzai il braccio così!» Prese il braccio della biondina e simulò una leva che aveva l’unico fine di sondargli la tetta.
«Mi dispiace signore ma la carta non è abilitata» disse il cameriere con discrezione.
«Come non è abilitata? Non è possibile; provi ancora», chiese lui indignato.
«Abbiamo provato più volte signore, ma dà sempre la stessa risposta: carta non abilitata. O mi dà un’altra carta o, se preferisce, può pagare in contanti», rispose il cameriere con gentilezza; dirigendosi poi verso un altro tavolo.
«Contanti? Io non porto denaro con me, mi deforma la giacca», disse Afro spazientito.
«Lascia stare, pago io», intervenne lei sottovoce.
«Scusami non so che cosa è successo alla carta. Lunedì chiamerò la banca e chiarirò questa faccenda. Mi sentiranno. Senti ti dispiace se mi dai i soldi e pago io al posto tuo? Non voglio dare la soddisfazione a quel cameriere di vedermi offerto la cena da una donna», disse Afro, raddrizzandosi il nodo della cravatta già dritto. Lei, un po’ stupita, gli passò i soldi senza commentare.
«Cameriere».
«Prego signore?»
«Ecco a lei, ci porti due vodka, e tenga il resto».
«Grazie mille signore», rispose il cameriere, arretrando e facendo un mezzo inchino.
«Ma come tenga il resto? Il conto è centocinquanta euro e tu gliene dai duecento?» Chiese lei.
«Così la prossima volta si ricorderà di me e starà più attento a non offendermi», disse lui, mentre il cameriere arrivava con due Absolute ghiacciate.
«Non ti capisco, in cosa ti ha offeso?» Chiese lei, dopo che il cameriere si era allontanato.
«Poteva dirmi di pagare la prossima volta, quell’ignorante!» Rispose lui, soffermandosi a osservare il bicchierino di vodka in controluce e bevendolo tutto di un fiato.
«Scusa, torno subito», disse lui improvvisamente, dirigendosi verso il bagno.
Di ritorno dal bagno Afro aveva le mascelle indurite, marcate ancora di più dal viso abbronzato dalle lampade.
«Non la bevi la tua vodka?» Chiese lui tracannandola senza aspettare la risposta.
«No… non mi va»
«Andiamo?» Disse lui in piedi, accarezzandosi le sopracciglia con il pollice e il medio e allargando la mano per continuare il gesto nei capelli.
«Ok», disse lei.
«Dove abiti?» Chiese lui, tirando su col naso.
«Perché, mi vuoi già accompagnare a casa?»
«Pensavo di comprare una bottiglia e berla a casa tua, così ti finisco di raccontare la storia di Casablanca».
«Avevo detto solo cena, nient’altro» disse lei; poi: «nei pressi della stazione centrale» e gli sorrise.
Lei si chiuse la porta alle spalle, lui si avvicinò e cominciò a baciarla sul collo, poi sulla bocca, lesto le passò la lingua intorno all’orecchio e poi iniziò ad aprirle la lampo. Lei cominciava piano, piano a sciogliersi e a sospirare, accompagnandolo con i movimenti del corpo – intanto che lui giocava con i suoi seni. Si spostarono sul divano, lui le tolse il vestito, ma, mentre lei stava per togliersi il reggiseno, la bloccò.
«No, aspetta, resta con il reggiseno e le mutandine e non togliere neanche le scarpe».
«Neanche le scarpe?» Chiese lei, «ma come faccio? Ho i tacchi a spillo!»
«Appunto» rispose lui, con una luce felina negli occhi.
La spinse dolcemente sul divano, le spostò le mutandine; iniziò a leccarle, lentamente, prima il monte di venere e poi, piano piano fin giù, e poi ancora su, contornando le grandi labbra, fino a stringerle il clitoride tra le labbra. Lei inarcava la schiena e sospirava ad ogni contatto della lingua di lui che serpeggiava sinuosa. Dopo un po’ Afro tirò fuori dalla tasca una bustina di cocaina.
«Co-cosa fai?» Chiese lei, completamente inerme.
Le strappò le mutandine e cosparse la vagina di polvere bianca e iniziò a leccargliela con veemenza, spostandosi, con naturalezza, nelle zone più sensibili, penetrandola con la lingua fin dentro la sua natura, in fondo, fino a leccarle l’anima ─ intanto che le mani le accarezzavano le cosce che fremevano inarrestabili, fino a farle perdere il conto degli orgasmi che si susseguirono senza sosta.
«Adesso prova tu» disse lui: mettendo un poco di coca sulla punta del pene. Lei si inginocchiò e cominciò a leccarglielo adagio, spostando lentamente la testa prima da un lato e poi dall’altro; guardandolo intensamente negli occhi, come se volesse, con quello sguardo, dichiarare la sua sottomissione a quell’uomo; la sua schiavitù. Dopo un po’ lui le prese la testa fra le mani, le strinse i capelli, e iniziò a spingerla con fermezza verso il suo pene per poi allontanarla successivamente, in un continuo e costante ritmo. Lei lo seguiva aprendo la bocca e succhiandolo a ogni spinta, in un gioco interminabile.
«Mettimi i tacchi sotto le braccia» disse lui improvvisamente, spingendola di nuovo sul divano. Lei, ormai preda, allargò le gambe e puntò i tacchi del décolleté sotto le ascelle di lui. Afro appoggiò il pene all’entrata della vagina bagnata da infiniti orgasmi, aspettò un attimo e poi vi entrò solo in parte, ripetendo il movimento più e più volte, finché non la penetrò spingendoglielo dentro con violenza, possedendola con un ritmo continuo e forsennato senza fermarsi.«Spingi coi tacchi, spingi dài!» La incitava con foga. Lei cominciò a spingere i tacchi con forza, mentre si dimenava e gridava oscillando la testa e inarcando la schiena; come se fosse posseduta dal demonio. Sbatteva le braccia sul divano e puntellava i piedi con forza, strillando parole incomprensibili; mentre lui continuava a possederla con brutalità, senza fermarsi, all’infinito.
Pato e Evia uscirono dal Goose Neck in un silenzio quasi solido.
«Fammi dormire con te, non voglio dormire da sola. Stanotte ho bisogno d’amore», disse lei, quasi pregandolo.
Pato la guardò come se volesse leggerle nel più profondo dell’anima, per capire dietro a quei bellissimi occhi neri quale dolore si celasse, ma sapeva che la conseguenza di tutti i dolori di lei avevano un solo nome: Afro.
«Evia non puoi rifugiarti fra le mie braccia ogni volta che Afro ti mette da parte. Non è giusto!»
«Sei uno stupido se pensi questo, lo sai che vi amo entrambi, l’unica differenza è che lui approfitta del mio amore e io approfitto del tuo», disse lei accendendosi una sigaretta.
«E pensi che questo triangolo ci faccia bene?»
«Io penso solo che i nostri destini sono indissolubilmente legati! Tu sei il bene e lui è il male e io non posso vivere aldilà di voi due».
L’uomo delle bambole
Tutte le mattine apriva il negozio alle otto, si toglieva il soprabito, andava nel retro bottega e accendeva la macchinetta del caffè caricata la sera prima. Lentamente s’infilava il camice e si sedeva dietro al banchetto di lavoro mentre il caffè saliva.
Con gesti abituali, metteva in ordine i ferri sul piano di lavoro, poi si alzava spegneva il fuoco e si versava la prima grossa tazza di caffè della giornata. Dopo il secondo sorso usciva fuori al negozio e guardava la gente passare; al quarto sorso di caffè rientrava si sedeva dietro al banchetto e iniziava a lavorare.
Le bambole erano degli esseri incredibili: ogni volta che ne curava una si rendeva conto che non poteva esistere un mondo senza bambole.
«Buongiorno piccola come ti chiami?» Chiese alla bambola. La piccola aveva il braccio staccato dal corpo e le mancavano alcune ciocche di capelli dietro la nuca. «Il cucciolo di uomo che ti ha avuta è stato maldestro vero piccola?» Continuò lui dando fondo alla tazza di caffè. «Ma non ti preoccupare ti rimetterò subito in sesto»: le tolse il vestitino, aprì un cassetto ed estrasse una siringa, la caricò con una fiala di lidocaina e ne iniettò metà sulla spalla e metà dietro la nuca della bambola. «Con questa non sentirai dolore piccola», disse dolcemente. Fece un’incisione sulla spalla, collegò i tendini e i muscoli sull’estremità ossea della clavicola, fissò due viti al titanio all’òmero e vi incastrò il braccio. «Sei brava, non ti lamenti. Ancora qualche minuto e poi ho finito. Non vuoi proprio dirmi come ti chiami piccola?» Chiese ancora lui con un largo sorriso.
Tolse il divaricatore e richiuse la ferita. «Ok! Dovrai fare un periodo di fisioterapia e dopo la spalla sarà come nuova. Adesso vediamo la testa». Aprì una scatola di latta e ne estrasse alcune ciocche di capelli di tonalità diverse, le avvicinò alla testa della bambola e disse: «queste sembrano proprio dello stesso colore, siamo stati fortunati a indovinare la tonalità al primo colpo piccola». Fece alcune decine di micro-fori inclinandoli un po’ per migliorare l’innesto e dargli più naturalezza, e iniziò a collocare le ciocche di capelli dietro la nuca. «Ecco fatto! Adesso hai di nuovo una bellissima chioma. Per i primi giorni evita di pettinarti dietro la nuca, c’è il rischio che si strappino», le raccomandò l’uomo mettendola seduta sul banchetto. Si staccò lo stetoscopio dal collo e le auscultò il torace: «Bene, bene, il cuoricino funziona magnificamente. Abbiamo finito, adesso ti vesto piccola», la rassicurò l’uomo. Le infilò il vestitino, le aggiustò i capelli e l’appoggio a terra e disse: «Ricordati di ritornare la prossima settimana per un controllo, ciao piccola».
«Arrivederci signore» rispose la bambola.
Un breve viaggio
Quella distesa d’acqua infinita oltre l’intricata foresta di alberi sembrava ribollire a mano a mano che il sole si mostrava. L’uomo restò fermo, incantato da tutta quella struggente meraviglia. Il tintinnio delle sartie gli ricordò che era un navigatore che non naviga da tre anni, e che da tre anni aveva superato i cinquanta.
Il suo occhio si librò lentamente sopra il mare attraversando il Mediterraneo fino a Gibilterra; gradualmente passò sulle Canarie; giunto a Capo Verde aumentò la velocità superando l’Atlantico; fece un largo giro sui Caraibi e poi si diresse verso Panama; cabrando sulle Galapagos si tuffò nel Pacifico; rimbalzò come un sasso sull’oceano in prossimità della Polinesia; sorvolò l’Australia e la Nuova Zelanda planando sull’Antartide. Giunto lì si riposò un poco, osservando con mesta curiosità una vecchia stazione baleniera abbandonata. Dopo aver dato uno sguardo a Capo Horn, avido e irrequieto, il suo occhio puntò verso il cielo attraversando la troposfera; gradualmente passò alla stratosfera; giunto fuori all’esosfera si fermò e osservò la Terra dall’alto imbellettata da un’aura azzurra – sospesa in un silenzio cosmico. Sempre più assetato, il suo occhio sbirciò verso lo spazio esterno: raggiunse Marte ammirando la fredda bellezza di quel pianeta color ruggine e i suoi misteri; fece un largo giro intorno a Giove incantato dalle dimensioni del gigante; poi verso Saturno e i suoi splendidi anelli; superò Urano, Nettuno, e giunto nei pressi di Plutone ebbe un attimo di esitazione. Si volse indietro per l’ultima volta e si avventurò verso gli spazi siderali.
Cibo per i pesci
Cibo per i pesci, sono solo cibo per i pesci; quanto tempo mi resta ancora da vivere a quarantacinque gradi di latitudine sud? Quattro minuti, forse cinque…
La temperatura è al disotto dei sette gradi centigradi. La zattera è stata attaccata dagli quali: tre grossi squali grigi, che chissà per quale astruso motivo hanno deciso che il fondo nero e zavorrato del mio mondo fosse commestibile. I tubolari si sono afflosciati privi di vita al primo attacco e la mia casa – dopo quindici giorni di permanenza – si è inabissata rapidamente. Mi è rimasto il giubbotto di salvataggio, grazie al quale riesco a essere ancora un’entità pensante. Un albatro vola sopra di me e continua a fissarmi con un occhio vitreo; lui sa, ha capito: aspetta la mia morte.Quindici giorni alla deriva su una zattera senza incontrare neanche una bottiglia di plastica. Sono sopravvissuto grazie ad un pesce più curioso degli altri che si è avvicinato affamato sottobordo: faceva parte di un branco che aveva preso dimora da qualche giorno sotto la mia isola galleggiante. L’ho mangiato crudo; ho mangiato cruda anche una sula sprovveduta afferrata per un’ala cinque giorni prima. L’acqua mi è durata per i primi sette giorni, poi il deserto in un mare d’acqua. Sono riuscito a malapena a lanciare la zattera fuori bordo portando con me solo un coltellino svizzero – quando la barca ha disalberato dopo tre giorni ininterrotti di burrasca forza otto. Le onde sembravano delle montagne invalicabili che aumentavano in altezza a mano a mano che il vento rinforzava, il mare sembrava metallico; ogni goccia che mi colpiva il viso era uno spillo pungente che mi penetrava nella pelle – e nell’anima – togliendomi, anzi no, rubandomi ogni speranza. Tre giorni al timone a contrastare qualcosa di enormemente grande. L’oceano, in qualsiasi momento, era pronto ad avvolgermi in un grigio sudario.
Le apparecchiature elettroniche mi hanno abbandonato gradualmente: prima il pilota automatico, poi il GPS, subito dopo il radar e la radio, e infine le batterie. La navigazione procedeva bene, finché un fronte occluso mi ha costretto a virare a sud verso latitudini più fredde. Ormai ero in mare già da due mesi convinto di raggiungere il mio obiettivo. Ero partito da Città del Capo in direzione Melbourne: cinquemila e cinquecento miglia di oceano Indiano nei quaranta ruggenti. La barca l’avevo rubata a Salvador de Bahia; stava là incustodita e non ho resistito alla tentazione, dovevo assolutamente continuare il mio viaggio. Ero appena sbarcato da un cargo proveniente da Gran Canaria che trasportava datteri, lavorando nelle stive puzzolenti per pagarmi il passaggio. Alle Canarie c’ero arrivato in aereo perdendo la coincidenza per l’Australia, per via di uno sciopero degli addetti al controllo del traffico dell’aeroporto di Roma. Fiumicino sembrava un dormitorio pubblico, pieno di gente e valigie che si ammassavano ai botteghini in attesa dell’imbarco. Sono arrivato all’aeroporto in fretta e furia – lasciando la macchina noleggiata all’Avis fuori alle partenze – senza curarmi dei divieti. Quando la mattina sono entrato nell’agenzia di noleggio, poco distante da casa mia, ho chiesto la prima vettura disponibile e nella fretta gli ho lasciato anche la carta di credito, insieme alla bici: a cosa mi serviva ormai? Tutto questo perché ho trovato quel maledetto negozio chiuso. Una signora al primo piano mi aveva detto che si erano trasferiti in Australia a Melbourne. Non pensavo che scendendo da casa avrei trovato il negozio chiuso. Ero sdraiato sul divano guardando la tivù e all’improvviso mi sono ricordato del mangiare per Moby e Dick. “Oh dio”mi sono detto “il cibo per i pesci!”
A volte i sogni s’infrangono su scogli veri.
E’ stato come un gemito infinito, uno stridente lamento che è emerso dalle profondità del mare e ha attraversato Malafemmena dalla chiglia fino e in testa d’albero.
Tutto tremava; anche noi. Come se la mano di un gigante l’avesse afferrata e scossa ripetutamente, facendola, poi, picchiare più volte sugli scogli sommersi a pochi metri dalla superficie; percuotendo anche le nostre anime. Era come assistere impotenti al martirio e alla violenza di un essere pensante, e lo stridore era la sua richiesta di aiuto.
Non c’è voluto molto per realizzare ciò che nella mia vita stava per succedere per la seconda volta. Quel suono di dolore ci ha attraversato la spina dorsale avanzando fino al complesso intreccio dei nostri cervelli istupiditi. Quei pochi attimi ci hanno fatto capire che non basta essere dei bravi ed esperti navigatori. No, non basta.
La Meda c’era, l’abbiamo vista, abbiamo virato standole a largo: distanti. Ma non è bastato.
Il nostro sogno si è incagliato su una secca al largo di Santa Eularia sulla costa sud di Ibiza.