Fremito

Ti alzi, il tuo corpo diffonde un profumo di essenze fragranti e di desiderio appagato; ti soffermi davanti allo specchio esplorandoti il viso in cerca di tracce di peccato;
ti passo accanto, mi prendi le braccia e ti ci avvolgi i fianchi strusciando la schiena contro il mio corpo nudo, mentre i tuoi capelli m’inondano la spalla avvolgendola in un mantello odoroso di frutti di bosco. Sospiri leggermente come se ti apprestassi a sorseggiare una bevanda calda. Improvvisamente vieni attraversata da un brivido che mi arriva direttamente al ventre… sono sommerso completamente da quell’unico e singolo fremito, che si fa strada nel mio corpo sguarnito di qualsiasi difesa. E’ una vibrazione forte, ancestrale, che s’impossessa di una mente ormai schiava dei tuoi gemiti. Mi prendi le mani e cominci a dirigerle lungo un percorso conosciuto solo dai tuoi sensi, le accompagni con determinazione indicando loro la strada verso i punti più sensibili e misteriosi del tuo corpo che vibra. Inondi le mie mani col tuo umore, poi ti inclini verso la parete accogliendomi nel profondo calore del tuo essere…

Ed è in quel momento che le nostre anime diventano schiave dell’istinto e della passione.

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Desiderio

Eccoti finalmente. Anche stamattina guardi nella borsa; sbuffi indispettita spostando la ciocca di capelli che ti cade sugli occhi ogni volta che abbassi la testa, poi appoggi la borsa sul tetto dell’auto e ti dedichi alla ricerca delle chiavi come se scavassi una buca nel terreno.
Fa freddo, quel cappotto lungo con il bavero largo ti modella magnificamente il corpo; invano tento di penetrarlo con lo sguardo. Ti desidero. Attraverso la strada e vengo verso di te; alzi la testa, mi guardi e rimani lì, ferma, solo gli occhi si muovono velocemente. Restiamo sospesi per lunghissimi secondi l’uno nello sguardo dell’altro. Ti accarezzo il viso, esiti, e poi strofini la guancia nella mia mano; ti cingo la vita e comincio a baciarti; accompagni i miei spostamenti con studiate angolazioni della testa permettendo alle mie labbra di esplorare la superficie del tuo collo flessuoso. La mia bocca lascia una scia ardente mentre la spingo delicatamente dietro il tuo orecchio, abbassi la testa e mi sposto lungo la nuca percorrendola a piccoli morsi, poi di nuovo sul collo, infine scivolo sulle tue labbra cibandomene avidamente. Ti apro il cappotto per cogliere quanta verità vi sia all’interno; frugo sotto i tuoi vestiti alla scoperta delle tue forme scivolando con le mani lungo il corpo, finché non si riempiono del tuo seno, finché le mie dita sfiorano i tuoi capezzoli turgidi d’eccitamento. Mi cingi il collo, ti ci aggrappi e avvolgi le gambe intorno ai miei fianchi restando sospesa tra la voglia di essere posseduta subito e quella di trovare una posizione più comoda. Ma anche così riesco a entrare in te. Comincio a spingere piano, ma con determinazione, e a ogni spinta la ciocca dei tuoi capelli sobbalza incontrollata, mentre a ogni sguardo il bianco dei tuoi occhi prende il posto dell’iride. Il tuo respiro mi accarezza l’orecchio con sussurri e inviti a spinte ancora più possenti. Non c’è più niente intorno a noi, tutto gira vorticosamente. Cavalchiamo questo momento cercando di farlo durare il più possibile, sorretti solo dal nostro desiderio…

Guardo oltre il tuo viso. Da un albero uno stormo di passeri spicca il volo.

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Ali

Anche quella mattina si svegliò presto e la sveglia confermò il suo pensiero: le 04:37. Era da molto ormai che indovinava esattamente l’ora prima di vederla – riusciva a spaccare il minuto. All’inizio gli sembrò un gioco, ma col passare del tempo la cosa lo mise in una strana ansia.

Si alzò a sedere sul letto e istintivamente si portò la mano dietro la schiena: sentiva dolore, un dolore sordo, profondo; andò in bagno e si guardò allo specchio. Erano dieci giorni che non si faceva la barba e cinque che non faceva una doccia, e chissà quanti che non metteva il muso fuori casa. Quella mattina aveva intenzione di uscire, l’aveva deciso esattamente in quell’istante. Il dolore alla schiena persisteva, si girò di lato verso lo specchio per individuare a che altezza si trovasse quell’insistente malessere. Un grido gli si soffocò in gola facendolo appoggiare al lavandino con forza appena prima che cadesse: due strani rigonfiamenti spingevano da sotto il pigiama all’altezza delle scapole. Si tolse la giacca e rimase allibito. Le ali erano ancora piccole, ma qualcosa gli diceva che sarebbero cresciute ancora. Provò a muoverle e con stupore vide che si distendevano e sbattevano lentamente. Si toccò il corpo, spostò oggetti, bevve dell’acqua, aprì la finestra e inspirò profondamente; girò per la casa battendo i piedi e toccando le pareti, alzò il telefono fece un numero a caso chiedendo se fosse l’ufficio postale – mentre la persona dall’altro lato lo investiva di improperi per averlo svegliato. No, non era morto, era vivo, se fosse stato morto non avrebbe avuto tutti i sensi funzionanti. Inoltre il tizio al telefono l’aveva sentito. Quindi…

Adesso che faccio? – Si chiese. Accese il computer e s’inoltrò nei meandri del web alla ricerca di informazione sugli angeli.

Si era fatto buio: aveva passato la giornata a cercare di capire cosa fossero gli angeli, ma le idee erano più confuse di prima. Si guardò allo specchio: le ali avevano raggiunto il massimo della crescita; le punte gli arrivavano fin quasi a terra; le dispiegò e si meravigliò dell’ampiezza delle sue appendici piumate.

Be’, – si disse – adesso che ho le ali potrei anche provare a volare. Salì sul davanzale della finestra e dopo un attimo di esitazione, si lasciò cadere nel vuoto…

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Mi piace la pop-art

Il pullman percorreva la sua linea con la tranquillità di un pullman di linea, o almeno a me così sembrava, in fondo che ne sapevo io di quell’itinerario? Non c’ero mai stato su quel pullman e non avevo nessuna idea di quale fosse il suo percorso. Sapevo che mi doveva portare da qualche parte, ma da che parte, non ne avevo idea.
Guardavo il paesaggio scivolare dietro il finestrino con la mia immagine che si sovrapponeva e ne copriva i particolari, anche se qualcosa mi diceva che poteva essere il contrario. C’era gente sul pullman, non tanta credo; spostavo lo sguardo tra il finestrino e il davanti; dietro non m’importava chi ci fosse, forse non c’era nessuno, chissà.

Mi meravigliò molto l’immagine di quel rimorchiatore che navigava a sud dell’Antartide; mi esplose nel cervello come una bolla d’acqua sulfurea. Avete mai visto esplodere una bolla d’acqua sulfurea? Si gonfia lentamente e poi esplode emettendo del vapore grigio che esala anch’esso lentamente: come il ragù.

Dunque, capii che in qualche modo i due mezzi di trasporto avevano qualcosa in comune, ci fu una specie di metamorfosi anfibia: il pullman che diventava rimorchiatore, o forse era un rimorchiatore travestito da pullman? Non mi soffermai molto sulla cosa, a che serviva?

La tappa era fuori dalla solita rotta, una tappa del tutto eccezionale, ma avevo la sensazione come se ogni tanto, nel suo girovagare, il pullman-rimorchiatore allargasse il suo itinerario, per raggiungere quel posto lontano alla fine del mondo. Fui colto da un raptus di meraviglia che mi attraversò il corpo, come una serie di cerchi di energia intenti a farmi una tomografia. Tirai fuori la digitale e cominciai a scattare, eccitato dalla ghiotta occasione di osservare un luogo che non avrei mai più avuto occasione di rivedere nella mia vita. L’Antartide mi ha sempre affascinato e non mi sarei mai aspettato di visitare un posto così remoto. Il piccolo monitor della digitale mi rimandava le immagini scattate sotto forma di quadri di Andy Warhol. Mi piace la pop-art, ma chiedevo alla digitale solo delle semplici foto, nient’altro. Smanettai un poco per cercare una funzione che mi facesse scattare immagini normali, ma non facevo altro che complicare la situazione. Un moto di rabbia mi invase talmente tanto, che cominciai a sbattere la digitale sul palmo della mano con la speranza che si resettasse da sola e prendesse coscienza di adempiere alle sue normali funzioni. Niente da fare, comunque continuai a scattare, che altro potevo fare?

Il gruppo di viaggiatori scese dal pullman-rimorchiatore e si fermò in mezzo a una strada larga quanto una piccola piazza, con pozzanghere disseminate lungo il percorso costeggiato da palazzi rinascimentali bagnati da una pioggia ormai passata. Io volevo uscire dal gruppo e farmi da solo il giro turistico, ma il tizio – comparso da chissà dove – mi fece segno di seguirlo. Spiegava delle cose al gruppo muovendo una bocca priva di suono. Istintivamente portai l’indice all’orecchio dandogli una serie di scrollatine, ma non successe niente di nuovo, continuavo a non sentire la voce del tizio.

Un campo di calcio coperto dal mare attirò la mia attenzione. Le porte erano al di sopra del livello dell’acqua mentre i giocatori erano sommersi fin sopra i pantaloncini. Rimasi affascinato dalla loro capacità di scartare e fare i passaggi sotto il livello del mare e vidi anche un gol fatto dalla squadra con le casacche rosse e i giocatori che si abbracciavano allegri sguazzando nell’acqua. Cercai d’immortalare il momento con la mia capricciosa digitale, ma continuava a darmi immagini d’arte moderna. In fondo non mi piace il calcio…

Un rombo capriccioso mi fece alzare gli occhi al cielo: il cumulonembo occupava quasi tutto il cielo e mi fece venire i brividi solo al pensiero di cosa potesse accadere in quel momento sotto quel tremendo evento atmosferico, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. Di solito hanno la forma di un fungo atomico, ma quello era diverso. Aveva sì la maestosità e la densità di un cumulonembo, ma era un po’ diverso nella sagoma: aveva punte di vapore grigio che si dipanavano verso l’esterno. Come se un pittore folle avesse deciso di trasformarlo in una chioma attraversata da corrente elettrica. Praticamente come la testa della piccola Maggie Simpson.

La devo smettere di prendere le pillole di carbone prima di andare a letto.

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Cespuglio di rose

Da dove è uscito quel cespuglio di rose? Ieri non c’era. Ieri? E quando è stato ieri? Forse c’era ieri quel cespuglio di rose ed ero io che non c’ero.
Dov’ero allora? Ero qui e forse non ero? E adesso, sono? Quanti ieri sono passati? Quanti cespugli di rose sono nati senza che io ne avessi coscienza? Quante domande senza risposte? Quante voci? Quante bocche? Quanti cespugli di rose?

Perché ho voglia di prendere una cesoia? Starò lontano da quel cespuglio di rose… lontano.

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Puzzle

Sarà il mio stato mentale approssimativo, ma questo puzzle ha dei pezzi in meno. Purtroppo la garanzia è scaduta, il codice a barre s’è consumato. I giorni fanno spazio alle notti.

Chissà se le notti spingono i giorni oltre l’orizzonte in velocità o sono i giorni che si trascinano le notti velocemente? Resta il fatto che al mio puzzle mancano ancora dei pezzi, forse non ci sono mai stati o forse li ho persi. Può anche essere che me l’hanno rubati; sì, è possibile. Secondo me, c’è qualcuno in giro che ruba pezzi di puzzle alla gente e ricostruisce altre vite.

E’ inutile barricarsi dentro, mettere infissi blindati, allarmi con sirene splendenti, cani da guardia a sei zampe che emettono fiamme, uccelli con zampe feline, teste d’aquila imbiancate, orsi irsuti… c’è qualcuno che va in giro per il mondo e ruba pezzi di puzzle, ma non si vede, si nasconde.

Sarà il mio stato mentale approssimativo, sarà…

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Rivolo

Un rivolo corre

cerchi leggeri vorticano in superficie

istantanee galleggiano

le acque le assorbono

poi i volti diventano solubili

le sembianze si dissolvono

e la mia vita scivola veloce verso il mare.

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Guerra

Lingue di fuoco attraversano il buio

il cielo si arrossa davanti alle stelle

fischi fuggevoli rompono l’aria

uomini cadono come foglie ingiallite

la morte attraversa il deserto

chi ci purificherà l’anima?

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Kamil

I cammelli vennero svegliati dai fischi e dalle grida dei nomadi; le stelle cominciarono a sbiadire, ma Orione s’intravedeva ancora in parte, come se volesse dare un ultimo addio alla Terra.
Una strana luce si addensò a oriente: una specie di lanugine perlata. I giovani, ancora insonnoliti e imbacuccati nei loro mantelli, raccoglievano le ultime cose intorno al bivacco della sera prima. Kamil frustava leggermente il collo di Sovrano che non ne voleva sapere di alzarsi. Mai nome era stato più adatto per quel cammello: aveva un’indolenza e una regalità irritante; masticava continuamente anche senza avere niente in bocca. Kamil a volte lo odiava, ma era una bestia resistente ed era ancora relativamente giovane. Anche Kamil era giovane per essere un cammelliere. La carovana si mosse lentamente verso sud. Un sole bianco iniziò ad affacciarsi da dietro le dune. I cammelli erano irrequieti. Qualcuno si attardò girandosi a guardare quella strana luce che invadeva il mondo.

A metà mattina il Ghibli cominciò a soffiare senza preavviso, cogliendo la carovana di sorpresa in mezzo a un deserto appiattito. Gli uomini e i cammelli avanzavano con difficoltà contro il vento ululante e ficcanaso, mentre le vesti aderivano al corpo come a tante statue di marmo.

Quella duna provvidenziale fu un regalo di Allah. Ripararono infagottati come tanti fantocci privi di vita. Per due giorni e due notti il Ghibli fece sentire il suo potente respiro. E all’alba di ogni nuovo giorno la strana luce perlacea dominava il cielo del deserto. Il terzo giorno il vento sparì. Gli uomini si mossero lentamente scrollandosi di dosso la sabbia che li aveva coperti completamente. Uno di loro era morto durante la notte: il vecchio Aban non ce l’aveva fatta; troppo debole ormai. Anche alcuni cani giacevano distesi privi di vita. L’aria puzzava di morte, mentre i primi avvoltoi cominciarono ad arrivare chissà da dove. C’era dolore nel campo, ma anche sollievo. La tempesta era passata, la vita continuava; c’era merce da consegnare e la carovana riprese il suo viaggio. Kamil era dispiaciuto per la morte del vecchio Aban. Era un tipo strano il vecchio Aban. Se ne stava sempre là, da solo con il suo cammello – ci dormiva a fianco. A volte Kamil gli portava il tè e lui per ringraziarlo gli raccontava vecchie storie.

Era l’alba la carovana aveva ripreso il suo cammino. Kamil spronò Sovrano verso un rilievo poco distante. Aveva intravisto uno strano luccichio appena sopra di esso. Giunto sulla piccola altura guardò verso ovest e gridò: “ Aban! Aban! Torna indietro, Aban!”

Poi si voltò. Una strana luce si addensava a oriente, come una specie di lanugine perlata

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La coccinella

Le gambe distese ad asciugare

il mare è più blu che verde

pensieri rincorsi da paure

ti guardo, sei incerta

affido tutto a te

cammini esitando

ti ostacolo col dito

se lo superi ci riuscirò, mi dico.

L’hai superato

posso superare l’oceano.

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