La tempesta era arrivata al massimo della sua forza distruttrice, le onde erano diventate alte e frangenti. Miranda, appoggiata a uno scoglio basso, cercava di trattenere i lunghi capelli che le impedivano di guardare verso il mare; mentre una mano istintivamente andava al cuore – come se volesse con essa sostenere l’emozione di quel momento tragico di tensione. La caravella era ormai segnata: grossi cavalloni stavano portando a riva i primi pezzi di pennoni strappati via dalla tempesta. Il vascello non riusciva a superare il vento, che impetuoso, veniva spinto verso le rocce. Miranda stava lì, ipnotizzata dalla scena, e nonostante non fosse esperta di vento e di mare, sapeva che presto la caravella si sarebbe rovinosamente distrutta sugli scogli. Un alto promontorio si ergeva incombente sulla rotta della nave, che cercava di guadagnare il largo risalendo la furia del vento. Ma le onde gigantesche la costringevano sempre di più verso quella sporgenza mostruosa. Miranda era atterrita, la scena aveva un che di surreale, tutto sembrava fermo, come in un dipinto del primo novecento. Dove il respiro di lei era l’unica cosa che facesse rumore in quella tempesta. Lo scricchiolio assordante seguito da un’esplosione di fasciame annunciò l’avvenuta catastrofe, che ruppe quel silenzio metafisico. Nel giro di pochi secondi, in quella zona sotto il promontorio, erano rimaste solo le onde. L’angoscia di Miranda si manifestò con un lungo e profondo grido di dolore. S’inginocchiò e pianse fino a prosciugarsi gli occhi – su quella spiaggia fatta solo di rocce che erano tutt’uno con il colore dei suoi capelli.
L’Incappucciato
Nubi opprimenti celano le vette delle montagne. Gli alberi sono grevi di neve tanto da far piegare i rami fin quasi al terreno. Fiocchi accecanti calano senza sosta sul paesaggio silente. Un uomo, ingobbito nel suo mantello, s’inoltra lungo un sentiero fangoso cosparso di pietre traditrici, mentre il cavallo stenta a restare in equilibrio trascinandosi a fatica sul terreno impervio. Le froge dell’animale creano due piccoli geyser che divergono, trasformandosi in un denso vapore grigio. Lui oscilla lentamente accompagnando i movimenti incerti del cavallo che avanza sospettoso.
Una sagoma deforme appare al centro del sentiero da una nebbia fitta e maleodorante: avanza, incappucciato, in un saio polveroso e consunto cinto da un cordone di canapa. L’ incappucciato alza il braccio scarno, ricoperto da una pelle raggrinzita, e fa cenno loro di fermarsi. L’uomo si arresta a pochi metri ed estrae la spada, facendo scartare il cavallo innervosito dalla mossa inattesa. L’incappucciato s’inginocchia e abbassa la testa in segno di sottomissione, tira fuori dal sacco un piccolo scrigno dorato cosparso di pietre luccicanti e l’offre al cavaliere. Il giovane scivola dalla sella e si avvicina all’uomo rinfoderando la spada e sovrastandolo con la sua mole. L’incappucciato apre lo scrigno, e da esso si sprigiona un piccolo vortice che a mano a mano diventa sempre più grande, fino ad avvolgere completamente l’uomo, imprigionandolo tra le sue spire. Dopodiché, fulmineo, si ritrae nello scrigno. L’incappucciato rimette l’oggetto nel sacco monta sul cavallo e lo spinge al galoppo lungo l’aspro sentiero. Una risata agghiacciante attraversa il bosco. Inaspettatamente il cavallo punta le zampe e si blocca, proiettando l’incappucciato in un capitombolo che termina con un tonfo rumoroso su una sporgenza rocciosa del terreno. L’animale si avvicina al sacco e con lo zoccolo spinge fuori lo scrigno, mandandolo a sbattere contro un albero e facendone aprire il coperchio. Di nuovo il vortice si sprigiona, e di nuovo aumenta di dimensioni finché non riappare l’uomo che, con un sorriso complice, si avvicina all’animale accarezzandolo sul muso e dice: “Uno stregone sciocco e avventato vero Pellediluna?”. Lei scuote la testa, soffia una grossa quantità di aria e scalciando risponde:“Uno stupido uomo di un’altra dimensione amore”.
Il trafficante di sogni
Dreamson la vide uscire dall’acqua: era ammantata da un’aura misteriosa, con passo lieve si diresse lentamente verso di lui; il corpo, color ambra, era cosparso di umide perle di luce; lunghi capelli neri e morbidi le ricadevano sul fondo schiena sinuoso. Con fare felino la donna si sdraiò accanto a lui, gli sorrise e lo baciò intensamente, e senza parlare si mise a cavalcioni su di lui. Dreamson si sentiva avvolto da una strana alchimia. Lei iniziò a muovere i fianchi con ritmo lento, sospirando dolci suoni in un mantra ignoto, mentre inarcava la schiena ad ogni spinta di lui, soggiogato da quella creatura misteriosa. E in una lirica di sensi mai provati consumarono un singolare, intenso e stravolgente amplesso.
Si svegliò turbato e disse:“No, questo non lo vendo, questo sogno lo terrò per me!”
Si tolse la mascherina da notte e si diresse alla consolle per spegnere l’impianto: una sofisticata apparecchiatura che trasformava i sogni in impulsi, i quali, trasmessi a un computer, venivano ricodificati e trasformati di nuovo in immagini e suoni. L’impianto era alimentato con una serie avanzata di pannelli fotovoltaici creati da lui e posti sulla cima dell’albero su cui viveva nascosto nella foresta Amazzonica. Estrasse la smart card e la nascose in una cavità dell’albero, attraversò a grandi passi il pavimento – che delimitava un piccolo ambiente fatto di assi di legno posto sopra due grossi rami nodosi – prese lo zaino se lo mise in spalla e scese giù lungo una scala di corda e, dopo averla occultata attentamente, si diresse verso uno dei tanti affluenti del Rio delle Amazzoni. Dietro un grosso masso, celata da larghe fronde, teneva nascosta una canoa, la fece scivolare nel fiume e pagaiando attentamente si allontanò verso est. Dopo aver navigato lungo il fiume per quattro ore giunse in un piccolo centro abitato e con passo sicuro s’inoltrò in una stradina. Guardandosi intorno estrasse una chiave che apriva un grosso lucchetto posto all’entrata di un garage; montò sul fuoristrada e dopo aver richiuso la saracinesca si diresse alla periferia del pueblo; imboccò un sentiero di terra battuta e continuò a guidare per alcune ore lungo strade sterrate e sconosciute. Arrivò a Manaus nel primo pomeriggio, doveva fare presto a quelle latitudini il sole calava in fretta. Entrò in un autolavaggio e fece ripulire il fuoristrada, dopo guidò per mezz’ora e posteggiò in una piazza, si avvicinò a un bambino e gli diede cinque dollari e una busta, il bambino attraversò la piazza e imbucò la busta in una cassetta delle lettere. Dopo aver controllato che tutto fosse andato liscio Dreamson rimontò sul fuoristrada e con discrezione si allontanò rapidamente verso il suo nascondiglio nella foresta. La busta era indirizzata ad un ricettatore di Caracas e conteneva una sottile mascherina da notte, meno sofisticata di quella usata da Dreamson: intessuta da una microscopica rete di contatti neurali che, messa sugli occhi, dava al soggetto esattamente la stessa sensazione di un sogno originale. La mascherina veniva duplicata in alcune migliaia di copie e distribuite ad una sotto rete di spacciatori che, a loro volta, ne facevano ulteriori copie, a discapito della qualità delle immagini e dei suoni. I prezzi variavano da tremila dollari americani per le copie di alta qualità, ai duecento dollari per quelle di qualità più scadente. Al ricevimento della busta il ricettatore accreditava su un conto cifrato della Cayman Security Bank, due milioni di dollari americani, i quali venivano automaticamente divisi su altri quindici conti cifrati di altrettante banche sparse per il mondo. Da alcuni anni e per una ragione inspiegabile, il cinquanta per cento della popolazione terrestre non riusciva più a sognare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva tentato in tutti i modi di debellare il virus che cancellava i sogni, ma a ogni anno che passava gli infetti aumentavano sempre di più. Lo stato d’allerta aveva superato già da tempo la fase sei ed era passato a quello di post-pandemia. La gente andava alla disperata ricerca di esperienze oniriche originali; si era così creato un mercato parallelo e illegale di spaccio di sogni con conseguente dipendenza onirica. C’era gente senza possibilità economiche disposta a rubare o addirittura a uccidere pur di sognare un sogno anche di qualità scadente. Dreamson era il trafficante di sogni più bravo del pianeta, i suoi sogni erano molto richiesti perché era un onironauta: un esperto di sogni lucidi. Riusciva a produrne almeno quattro al mese ma gli costava molto in termini di salute psichica: la mente veniva messa sotto torchio per sfruttare al meglio la qualità delle visioni oniriche. In più il montaggio era duro ed estenuante e lo teneva inchiodato al computer giornate intere, a volte facendogli saltare anche i pasti. Ma quel giorno era contento: il sogno della notte precedente aveva risvegliato in lui delle nuove sensazioni che non provava da tempo e non intendeva condividerle con nessuno.
Giunse al nascondiglio che era già buio, con fatica si arrampicò per la scala di corda ed entrò in casa. Si diresse direttamente alla cavità dell’albero dove aveva nascosto la smart card, la inserì nel computer e avviò l’elaborazione e il montaggio del sogno avuto la notte precedente. Era stanco morto, la giornata era stata lunga e stressante, ma non esitò: accese la consolle, indossò la mascherina da notte e si sdraiò sul letto. Iniziò a fare alcuni esercizi di rilassamento e respirazione lenta per predisporre la mente ad un sogno lucido: il suo proposito era quello di sognare di nuovo la donna misteriosa, ma questa volta controllando il sogno. Iniziò a ripetere lentamente sempre la stessa frase: “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. La frase ripetuta più volte permetteva di sincronizzare gli emisferi cerebrali e di introdurre l’onironauta al passaggio tra veglia e sogno. L’esercizio dava buoni risultati per la tecnica ma non garantiva la scelta del sogno, Dreamson sperava di riuscirci.
I minuti si alternarono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane. Ritornò su quella spiaggia tutte le notti ma senza mai incontrarla, era disperato. Finché una notte: Dreamson indossava uno smoking bianco e un berretto da baseball rosso, guardava verso la distesa d’acqua turchese in attesa di una apparizione che tardava a comparire. Irrequieto iniziò a passeggiare nervosamente sulla battigia avanti e indietro girandosi ogni tanto verso il mare. Lentamente, cominciarono a formarsi alcune piccole onde che a mano a mano aumentavano sempre di più. Il mare iniziò ad agitarsi e poi, dopo un po’, a ribollire. Sembrava come se una forza sovrannaturale stesse cercando di vincere la pressione dell’acqua, ma non ci riuscisse. Dreamson aveva la sensazione che lì sotto si celasse qualcosa di sinistro, cominciò ad arretrare verso la folta boscaglia che si trovava alle sue spalle, ma inciampò in un sasso e cadde. Tentò di rialzarsi ma la sabbia l’avvolgeva sempre di più trattenendolo inesorabilmente. Iniziò a scrollarsela di dosso, mentre i granelli di sabbia s’ingrossavano e scoppiettavano come dei pop-corn impazziti. Improvvisamente sull’acqua si formò una grossa bolla d’aria che esplodendo liberò uno sciame di insetti alieni i quali si diressero verso di lui. Lo sciame iniziò a roteare e a prendere forma, inizialmente amorfa e poi, piano piano, sempre più netta e umana. La donna si manifestò davanti ai suoi occhi circondata da una luce malefica, e con un freddo sorriso gli disse:”Dreamson sono venuta a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Il viso di lei cominciò a sciogliersi lentamente in un laido susseguirsi di nauseante sfrigolio accompagnato da un verso sconosciuto e raccapricciante, che gli gelò il sangue nelle vene. Si strappo la mascherina da notte e si sedette in mezzo al letto: era completamente zuppo di sudore e faticava a respirare. Uno strano fruscio seguito da un ramo spezzato lo destarono completamente dal torpore post-onirico: aprì una cassapanca e ne estrasse una pistola, uscì in silenzio e si arrampicò sul ramo al di sopra del tetto; si mise disteso e attese, pronto a vendere cara la pelle. Una quindicina di uomini armati fino ai denti e alcuni cecchini posizionati sugli alberi, circondavano il suo nascondiglio. Una voce perentoria che sapeva di legge risuonò in quell’alba appena iniziata: “Dreamson esci dal nascondiglio con le braccia in vista e bene alzate!” “Dreamson se esci subito con le braccia alzate ti prometto che non ti torceremo un capello, hai cinque minuti!” Dreamson malediceva la sua stupidità: erano passate due settimane dall’ultimo invio di merce al ricettatore di Caracas, e questi convinto che lui avesse fatto accordi con qualche suo concorrente, l’aveva sicuramente denunciato. “Maledetto sogno, mi ha stregato” si disse Dreamson. ”Dreamson veniamo a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Tuonò il capo della squadra speciale antionironauti. Un fucile automatico con un binocolo di precisione sparò un solo colpo, gli uccelli tacquero e nella foresta ci fu silenzio.
L’ospedale psichiatrico di Seattle era il più moderno e attrezzato degli Stati Uniti, aveva un padiglione speciale dedicato unicamente alle patologie sulle percezioni derivanti da illusioni e allucinazioni gravi nei malati terminali. Jack, un grosso omaccione nero alto due metri, iniziò il giro di controllo come ogni mattina. Giunto all’altezza della stanza numero tredici afferrò la ricetrasmittente e chiamò il collega: “Jhon raggiungimi alla tredici presto!” “Che è successo?” Chiese Jhon. “Dreamson è morto!” rispose Jack. Poco dopo Jhon entrò nella stanza e vide il corpo privo di vita di un uomo col viso deformato da una smorfia di dolore. “Cos’è quella cosa?” Domandò Jhon, indicando un oggetto a fianco al morto, che Jack in precedenza non aveva notato.“Mi sembra una mascherina da notte con una trama di piccoli fili.” rispose Jack rigirandosela tra le mani. “Strano, chissà chi ce l’ha portata qui!” Ribattè Jhon incuriosito. “Non lo so, ma è meglio che non lo diciamo a nessuno, c’è il rischio che perdiamo il posto” rispose Jack mettendosela in tasca. “Dài andiamo a fare rapporto” insistè Jack, e uscendo buttò la mascherina di Dreamson nel contenitore dei rifiuti speciali.
Filmati…
L’esperimento
Si svegliò da un sonno agitato, la sveglia segnava le 06:58; dalla finestra entrava un’aria frizzante di un bel mattino di metà settembre. Non ricordava il sogno ma era certo che non era stato bello: “Forse un incubo” pensò. Cercava di focalizzare i suoi pensieri su quello che aveva sognato, ma niente, non gli tornava in mente assolutamente niente. Si trovò in bagno guardandosi allo specchio: aveva il viso cereo e grosse occhiaie che gli si allungavano fin quasi alle gote: “Non è un bel vedere” si disse. Aprì il rubinetto e con le mani a coppa si spruzzò in faccia grosse quantità di acqua fredda – come se volesse, con quel gesto, cancellare quella sgradevole immagine di sé.
Senza ricordare la dinamica, si ritrovò in cucina con una tazza di caffè in mano, chiedendosi quando fosse successo. Aveva addosso una strana e indefinibile sensazione di disagio che non lo mollava; oltretutto c’era il fatto che non riusciva a ricordare i passaggi dal letto alla finestra e poi al bagno e infine in cucina. Improvvisamente una quantità enorme di informazioni cominciò ad affluire nella sua mente a una velocità impensabile per un cervello umano. Aveva il corpo attraversato da leggeri e continui spasmi, ma una attenta lucidità gli faceva capire di non preoccuparsi e di rilassare la sua mente, anzi di aprirla ancora di più. Senza preavviso gli spasmi aumentarono: cadde sul pavimento e cominciò ad inarcare e raddrizzare la schiena sempre più velocemente. Era lucido, era cosciente, era vivo; la morte non lo preoccupava, sapeva di non morire, sapeva che quello che gli stava succedendo era una prova, era un esame: un esperimento. Una luce intensa lo accecò e perse i sensi.
Naufrago
Mi svegliai come da un lungo e angoscioso sogno: avevo le mani cosparse di piaghe, le labbra mi bruciavano maledettamente ed erano coperte di pustole; le spalle sembrava fossero attraversate da lunghi spilli roventi. Il pavimento si muoveva, anzi no, rollava: dei rigagnoli d’acqua salmastra, dal sapore stantio, sciabordavano senza sosta lambendomi il corpo disteso sul paiolato che puzzava di pesce marcio. Il sole era di un bianco talmente accecante che nemmeno socchiudendo gli occhi riuscivo a capire l’ambiente che mi circondava.
Fu l’odore del mare e lo sciacquìo dell’acqua che mi informò del mio stato di naufrago. Provai ad alzarmi, ma il rollio della scialuppa mi fece capire, senza pietà, le condizioni precarie in cui mi trovavo. La sete mi assaliva come un’orda di cani bavosi, ero circondato da un oceano d’acqua senza poterla bere. Mi girai sul dorso, allungai il braccio sostenendomi a uno scalmo e riuscii a sedermi al centro della barca: avevo la testa bombardata da centinaia di palle di cannone, da vele quadre incendiate e da alberi spezzati che cadevano sui ponti delle navi seminando morte e distruzione; da arrembaggi con spade ricurve, sciabole e coltellacci che trapassavano i corpi dei marinai, e palle di moschetto che dilaniavano la carne e menomavano senza pietà; da grida di uomini, lamenti di feriti, risate oscene, pianti irrefrenabili, visi deformati dal terrore, grida e bestemmie partorite dalla battaglia. E sangue, sangue d’ovunque. E grazie ad una pozza di sangue che scivolai infilandomi, contro la mia volontà, in una larga apertura fatta da una palla di cannone e caddi in mare galleggiando in un groviglio di sartie e pennoni. E quando infine le due navi s’inabissarono contemporaneamente – lasciando a galla solo corpi e oggetti inanimati – con le ultime forze riuscii ad aggrapparmi a l’unica scialuppa rimasta intera in quel disastro.
Il tempo
Il tempo mi ha rubato un altro anno… maledetto tempo: inizi con i secondi; poi i minuti; poi le ore e infine mi rubi giorni interi, settimane, mesi, anni! Lo so un giorno smetterai di correre, ti fermerai; ma sarà un giorno funesto… Ti odio tempo!
La bicicletta
Lei mi aveva lasciato dimenticando il pupazzo con un buco al posto dell’occhio. Mi ritrovai seduto sul pavimento al centro della stanza senza riconoscere l’uomo riflesso nello specchio sulla parete opposta.“Chi sei?” Gli chiesi. Guardai verso la finestra: faceva buio, le luci si erano già accese illuminando una strada vuota e bagnata dalla pioggia autunnale. Un cigolio fastidioso si insinuò nella mia mente, mi alzai e guardai giù: la bici si trascinava rumorosamente trasportando una sagoma nera, ingobbita dalla pioggia che scrosciava rumorosamente. L’uomo sbandò e cadde; si rialzò dopo un po’ massaggiandosi il ginocchio e volgendo lo sguardo verso l’alto, scorgendo la mia figura scura sullo sfondo giallo della finestra. L‘uomo rimontò in sella girandosi a guardare, ancora una volta, nella mia direzione e continuò verso il suo destino.
Scesi le scale di corsa con il fiato in gola. Uscito in strada girai l’angolo: non c’era nessuno.
Mi ritrovai tutto bagnato al centro della strada lunga e desolata, senza capire perché. Tornai indietro noncurante della pioggia, superai il portone di casa e m’inoltrai nei vicoli silenziosi scrutando nel buio a destra e a sinistra alla ricerca del niente. Mi guardai i piedi: ero scalzo.
Foglio bianco
Sono davanti a un foglio bianco, sforzandomi di vedere quello che non c’è, cercando di descrivere e trasformare in segni quello che penso, quello che si materializza nella mia mente. A volte lo guardo, gli guardo dentro, per interi minuti, guardo il suo biancore accecante, i suoi contorni, la sua geometria, la sua fredda immobilità, la sua gelida fissità, guardo la sua bidimensionalità, la sua algènte immutabilità. Poi comincio a far passare il mouse sulla barra degli strumenti e sulle funzioni: lo stile, il carattere, la dimensione, colore, sfondo… ”riscaldo le candelette”, prendo tempo. Rovisto nella mia testa, esploro, cerco, frugo; si affacciano le prime porzioni d’ immagini, i primi flash. Sono pezzi di ricordi, a volte in bianco e nero, a volte a colori, senza una forma definita, che cerco di fissare, di imprimere, sviluppare. Si delineano, si sovrappongono si trasformano, vanno via, ritornano. Cerco di dare un ordine al caos, cerco un entropia mentale. Prendo questi pezzi di puzzle e provo a unirli, selezionandoli, dividendoli, scartandone alcuni, aggiungendone altri. M’immergo dentro di loro, ci nuoto, mi lascio trasportare galleggiandoci sopra; attraversando vortici indefiniti, gorghi inspiegabili, supero colline di ricordi, altopiani di concetti, scalo montagne di significati, cordigliere di pensieri. All’inizio è un ricordo, lontano, remoto, vago, una storia , un racconto, una sensazione, una scena di un film, un libro letto anni addietro, o solo un immagine. Poi inizio a dargli una forma, un’ossatura, un corpo. Lo animo, gli dò vita, lo nutro, lo disseto, lo vesto di parole, di frasi, di locuzioni. oppure lo svesto, lo spoglio, lo disadorno, finché non ricresce e diventa adulto… pronto e chiaro come un mattino d’alta quota.
Il problema è trasformarlo in prosa.
Dove sei?
Sono disteso sull’amaca, montata tra l’albero e lo strallo di prua, leggendo le disavventure di Edmod Dantés: tradito dagli amici, incarcerato e privato dell’amore di Mercedes Herrera, che amerà per sempre, nel Il Conte di Montecristo. Ogni tanto distolgo l’attenzione dalla lettura, e dò uno sguardo intorno contemplando lo spettacolo che mi offre la natura.
L’aliseo mi accarezza avvolgendomi in un abbraccio caldo e costante, creando un dolce fruscio tra le palme di cocco protese verso il mare e distorte dal vento e dalla gravità. L’acqua cristallina, la cui trasparenza rende il fondale minacciosamente vicino, riflette l’ombra della barca che dondola dolcemente all’ancora. Sotto di essa, nella doppia veste di prede e predatori, un universo variopinto s’industria alla ricerca dell’unico motivo di sopravvivenza, tra gli scheletri calcarei dei coralli. Sulla spiaggia bianca e assolata due granchi si rincorrono in circolo in una strana e misteriosa danza d’amore o di morte. Poco più in là, un colibrì vestito di blu cangiante vola a scatti repentini da un fiore all’altro baciandoli dolcemente. E ancora oltre, le onde dell’oceano si frangono in un susseguirsi continuo e rumoreggiante, su un confine delineato da coralli e madrepore. In alto si avvicendano veloci batuffoli di cotone che si stagliano contro l’azzurro di un cielo caraibico, punteggiato da nere sagome dal preistorico profilo, che volteggiano alla ricerca di cibo. In lontananza un triangolo bianco risale il vento dirigendosi, senza fretta apparente, verso chissà quale esotica meta.
Mentre nella mia mente si forma il canovaccio descrittivo di questo scenario naturale… penso a te: rimbalzi nella mia mente come una palla di flipper, creando scintille di coscienza e incertezza a ogni pensiero che si forma. Ogni impulso nervoso è ricoperto dalle tue sembianze: da un sorriso, uno sguardo, una posa. La tua immagine cresce a dismisura, a volte deformata, fino a straripare dallo schermo della mia immaginazione. Cerco di materializzarti nella mia memoria, ma perdo pezzi congrui di fantasia e annaspo tra i marosi dei tuoi molteplici profili, cercando di aggrapparmi a qualcosa di reale per non impazzire. Ti trovo e poi ti perdo in una danza ipnotica e surreale, combattendo tra ragione e follia, perdendo capacità e discernimento…
E ti allontani: la tua sagoma di spalle, contornata da una lattiginosa luce bianca, cammina lentamente verso uno spazio buio e senza fine. In un altro posto, in un’altra terra, in un altro mondo, in un altro sistema, in un’altra galassia, in un altro universo, in un’altra vita!
Mi sveglio, allungo le membra con un movimento graduale e lento; i colori sono svaniti e il buio si è impossessato della luce, lasciando il posto a uno scenario diverso. La notte inizia a macchiarsi di minuscole luci di differente luminosità, il cielo stellato sopra di me non è un sogno ma una realtà. Una lacrima incontrollata forma un lungo solco sulla mia guancia, e il mio pensiero ritorna a te, chiedendosi dove sei: “Dove sei Mercedes? Meraviglioso e immacolato frutto della mia immaginazione.”