Navigare…

Navigare mi ha sempre affascinato, ho sempre ritenuto che i navigatori fossero delle persone speciali: pregne di umanità, altruismo, sensibilità.
Oggi, con le nuove tecnologie, qualsiasi incosciente può decidere di prendere il mare su una qualsiasi barca che abbia tutta una serie di apparecchiature elettroniche a bordo; imbarcando con sé anche l’irresponsabilità, la presunzione e la meschinità. Queste persone sono un grosso pericolo per gli altri e per se stessi, ma il mare questo lo sa bene.

Share This:

La Ninfa

I vapori saturavano la grotta condensandosi in gocce sotto la volta che, gravide, cadevano di tanto in tanto. L’uomo galleggiava leggero lasciandosi portare dalla piccola corrente creata dal getto d’acqua che sgorgava da un’anfora incastrata nel muro appena sopra la vasca. Qualcuno si era preoccupato di profumare l’acqua con essenze di eucalipto e alloro, più un altro profumo che non riusciva a identificare. Si sentiva avvolto in un limbo benefico. Era come se fosse lì dalla nascita, anzi, da molto prima. Gli sembrava come se il tempo stesse decidendo se continuare il suo corso o fermarsi a contemplare la scena, fissandola in un tempo senza tempo. Un piacevole calore gli faceva scorrere stille di perle lucenti che gli scivolano lentamente lungo il viso gocciolando nell’acqua. Sulla parete piccoli pezzetti di maiolica creavano un elaborato mosaico con scene di ninfe velate e ancelle con anfore e ghirlande di fiori, con piccole sorgenti che s’immettevano in una vasca simile a quella in cui si trovava l’uomo. Il tutto era incorniciato da linee ondulate di disegni moreschi che davano l’aspetto di un oriente antico e misterioso.

Le ancelle raccoglievano l’acqua sorgiva in piccole anfore disegnate delicatamente e, dopo averle profumate di oli fragranti, le versavano lungo il corpo delle ninfe – appena coperte da sottili veli di mussola. Alcune di esse si rincorrevano in cerchio saltando e danzando, per poi immergersi allegre nella piscina. Le voci gli giungevano chiare, contornate da fruscii, sciacquii e risolini allegri. Una melodia sconosciuta si fece strada, inerpicandosi delicatamente lungo il soffitto, per poi degradare lungo le pareti, fino a galleggiare sull’acqua.

Lei comparve da dietro la colonna incamminandosi lungo la vasca: il tessuto che l’avvolgeva ondeggiava spinto dall’andamento sinuoso delle anche. Si soffermò un attimo sorridendogli e poi s’immerse – mentre l’acqua si apriva al suo passaggio, per poi richiudersi alle sue spalle – in un liquido abbraccio contornato da lievi mulinelli, che le accarezzavano le cosce mentre avanzava. Sulla parete le ninfe li osservavano e ammiccano con sorrisi complici e piccole spinte dei gomiti. L’uomo rimase sdraiato sull’acqua, mentre veniva lambito dalle piccole onde create da lei, che era appena emersa al suo fianco. Le mani si toccarono con dita avide e curiose, poi le labbra si sfiorarono strisciando sulla pelle madida del sapore termale di sorgente calda. Infine le membra si unirono – aderendo perfettamente – in un ripetitivo e continuo orgasmo. Fino a quando un canto leggero in una lingua ancestrale iniziò a seguire il ritmo dei loro corpi. Fino a quando la melodia saturò l’ambiente. Fino a quando il tempo scordò il passato e abbandonò il futuro. Fino a quando dimenticò se stesso.

Era buio, l’inserviente vide il corpo galleggiare immobile con la faccia sotto e le braccia allargate. Si precipitò nella vasca con la speranza che l’uomo fosse ancora vivo. Ma il suo cuore s’era fermato già da un pezzo. “Dio”, pensò. “E’ il terzo che muore in un mese”.

Mentre sollevava il corpo appoggiandolo sul pavimento, il suo sguardo cadde sulla la scena lungo la parete – appena illuminata da una cono di luce soffusa. “Strano” pensò. “Eppure quella ninfa me la ricordavo nascosta dietro una colonna”.

Share This:

All’egoismo…

All’egoismo dell’uomo preferisco il mare in tempesta.

Share This:

Ci sono…

Ci sono due tipi di marinai, quello che naviga e quello che sta in porto: il primo arricchisce la propria conoscenza, il secondo arricchisce il porto turistico.

Share This:

Long leg

Il faro spuntava da un punto sabbioso del litorale, leggermente ondulato da rena fine e bianca, che sfumava nel grigio. La solitudine del posto e il silenzio contrastava con la sonorità dei colori del paesaggio. Quella melodia cromatica era comparabile a una musica lontana e silente, oltre la quale c’era l’oceano azzurro e sconfinato, che si fondeva all’orizzonte con il bianco celeste del cielo. Una piccola barca con le vele latine consunte dal tempo, si faceva strada a fatica lungo la costa, beccheggiando vistosamente.
A bordo un uomo, la cui età era un mistero anche per se stesso, manovrava con disinvoltura le scotte arse dal sale. Lo sguardo, rivolto verso l’infinito, era contornato da una folta barba canuta dalla quale spuntava una pipa ottenuta da una strana conchiglia a forma di siluro. Era l’unico essere vivente nel raggio di duecento miglia.

Gambalunga – così era chiamata quella striscia di sabbia – ormai era stata abbandonata. La gente aveva lasciato quel pezzo di terra desolato anni addietro. Un posto arido dove l’unico contrasto di colore con le dune, lo dava il verde tetro di alcuni bassi cespugli di conifere. L’uomo si girò verso il faro – con la recondita speranza di vedervi affacciato il guardiano con il suo grosso binocolo. Alzò il braccio in segno di saluto, mentre nella sua mente un cane abbaiava scodinzolando lungo la battigia, rincorso da un bambino dai capelli biondo cenere che cercava di trattenere un aquilone rapito dal vento. Ma non ricevette alcuna risposta. Ricordava benissimo quel bambino che si costruiva gli aquiloni con la cartapesta e la colla di merluzzo. C’era ancora qualche alberello a quei tempi, e lui andava sempre alla ricerca dei rami più sottili e leggeri per farne intelaiature per gli aquiloni. Anche il cane ricordava benissimo: un bastardino pezzato che era il suo compagno di giochi. Sì, si ricordava benissimo di Scuffia. E di quell’omone grande e grosso col suo grosso binocolo che si appoggiava alla balaustra ogni volta che usciva fuori a controllare il mare. Ricordava anche la moglie del guardiano del faro: piccola e minuta, sempre indaffarata, che lo riprendeva sempre ogni volta che tornava a casa con le ginocchia sbucciate. Come poteva dimenticare i propri genitori? Come poteva dimenticare se stesso? E, alzandosi il bavero, si rintanò di nuovo nel suo mondo galleggiante.

La tappa era lunga: tre giorni di oceano insidioso in solitudine; tre giorni di veglia e di spruzzi di sale conditi da riflessioni profonde. La piccola barca era ormai vecchia, il legno scricchiolava troppo e da più parti faceva acqua. Aveva bisogno di essere messa a secco e calafatata completamente. Andavano sostituite le vele e le sartie, e chissà che altro ancora. Ma non aveva né la forza né la voglia di farlo. Ormai i tempi erano cambiati, avevano accelerato e lui era rimasto indietro; solo su quel pezzo di terra sabbiosa lontano duecento miglia dalla civiltà. Guardò avanti: l’estremità del capo era vicina. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», si disse. Ormai la decisione era stata presa: voleva dirigersi sul continente, unirsi ai suoi simili, mischiarsi in mezzo alla gente. Poteva trovare un lavoro, per esempio, poteva insegnare ai giovani l’arte della navigazione, come fare i nodi, come pescare i tonni. E passare le serate alla locanda a ingozzarsi di birra spillata e raccontar di mare. Ecco cosa stava per fare. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», ripeté.

Le prime onde dell’oceano aggredirono la prua e cominciarono a far impennare la piccola barca. Ebbe un momento di forte sgomento: un pensiero tetro gli attraversò tutto il corpo e si rintanò nella parte più recondita del suo io.«Sono vecchio ormai!» disse al vento.

E dal suo feudo di legno si preparò a invadere il mare.

Le onde baciavano con veemenza la costa del continente portando a riva i resti di una piccola barca con qualche pezzo di vela latina. Tra le sartie vi era incastrata una pipa ricavata da una conchiglia a forma di siluro.

Share This:

Miranda e la tempesta

La tempesta era arrivata al massimo della sua forza distruttrice, le onde erano diventate alte e frangenti. Miranda, appoggiata a uno scoglio basso, cercava di trattenere i lunghi capelli che le impedivano di guardare verso il mare; mentre una mano istintivamente andava al cuore – come se volesse con essa sostenere l’emozione di quel momento tragico di tensione. La caravella era ormai segnata: grossi cavalloni stavano portando a riva i primi pezzi di pennoni strappati via dalla tempesta. Il vascello non riusciva a superare il vento, che impetuoso, veniva spinto verso le rocce. Miranda stava lì, ipnotizzata dalla scena, e nonostante non fosse esperta di vento e di mare, sapeva che presto la caravella si sarebbe rovinosamente distrutta sugli scogli. Un alto promontorio si ergeva incombente sulla rotta della nave, che cercava di guadagnare il largo risalendo la furia del vento. Ma le onde gigantesche la costringevano sempre di più verso quella sporgenza mostruosa. Miranda era atterrita, la scena aveva un che di surreale, tutto sembrava fermo, come in un dipinto del primo novecento. Dove il respiro di lei era l’unica cosa che facesse rumore in quella tempesta. Lo scricchiolio assordante seguito da un’esplosione di fasciame annunciò l’avvenuta catastrofe, che ruppe quel silenzio metafisico. Nel giro di pochi secondi, in quella zona sotto il promontorio, erano rimaste solo le onde. L’angoscia di Miranda si manifestò con un lungo e profondo grido di dolore. S’inginocchiò e pianse fino a prosciugarsi gli occhi – su quella spiaggia fatta solo di rocce che erano tutt’uno con il colore dei suoi capelli.

Share This:

L’Incappucciato

Nubi opprimenti celano le vette delle montagne. Gli alberi sono grevi di neve tanto da far piegare i rami fin quasi al terreno. Fiocchi accecanti calano senza sosta sul paesaggio silente. Un uomo, ingobbito nel suo mantello, s’inoltra lungo un sentiero fangoso cosparso di pietre traditrici, mentre il cavallo stenta a restare in equilibrio trascinandosi a fatica sul terreno impervio. Le froge dell’animale creano due piccoli geyser che divergono, trasformandosi in un denso vapore grigio. Lui oscilla lentamente accompagnando i movimenti incerti del cavallo che avanza sospettoso.

Una sagoma deforme appare al centro del sentiero da una nebbia fitta e maleodorante: avanza, incappucciato, in un saio polveroso e consunto cinto da un cordone di canapa. L’ incappucciato alza il braccio scarno, ricoperto da una pelle raggrinzita, e fa cenno loro di fermarsi. L’uomo si arresta a pochi metri ed estrae la spada, facendo scartare il cavallo innervosito dalla mossa inattesa. L’incappucciato s’inginocchia e abbassa la testa in segno di sottomissione, tira fuori dal sacco un piccolo scrigno dorato cosparso di pietre luccicanti e l’offre al cavaliere. Il giovane scivola dalla sella e si avvicina all’uomo rinfoderando la spada e sovrastandolo con la sua mole. L’incappucciato apre lo scrigno, e da esso si sprigiona un piccolo vortice che a mano a mano diventa sempre più grande, fino ad avvolgere completamente l’uomo, imprigionandolo tra le sue spire. Dopodiché, fulmineo, si ritrae nello scrigno. L’incappucciato rimette l’oggetto nel sacco monta sul cavallo e lo spinge al galoppo lungo l’aspro sentiero. Una risata agghiacciante attraversa il bosco. Inaspettatamente il cavallo punta le zampe e si blocca, proiettando l’incappucciato in un capitombolo che termina con un tonfo rumoroso su una sporgenza rocciosa del terreno. L’animale si avvicina al sacco e con lo zoccolo spinge fuori lo scrigno, mandandolo a sbattere contro un albero e facendone aprire il coperchio. Di nuovo il vortice si sprigiona, e di nuovo aumenta di dimensioni finché non riappare l’uomo che, con un sorriso complice, si avvicina all’animale accarezzandolo sul muso e dice: “Uno stregone sciocco e avventato vero Pellediluna?”. Lei scuote la testa, soffia una grossa quantità di aria e scalciando risponde:“Uno stupido uomo di un’altra dimensione amore”.

Share This:

Tangeri

E’ buio, sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto s’illuminano squarciando il buio con saette accecanti, poi un successivo basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.

Ci troviamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente Africano, siamo appena usciti indenni da un’infida burrasca. Il vento picchia ancora forte ruggendo sull’attrezzatura di Anahita, che nonostante sia priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, almeno adesso siamo al riparo dalle onde. Mi sono accorto di non avere la mappa particolareggiata del porto, il che significa che è come trovarsi in un labirinto, al buio, dove non si riescono a definire neanche le pareti. Procediamo attenti, ma con difficoltà, il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confondono senza darmi la possibilità di individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzoni illuminati a giorno che galleggiano sull’acqua smossa dal vento forte, nonostante l’apparente densità oleosa e la puzza che mi offende le narici. Sembra strano, ma sto pensando seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, credo però che Anahita ne uscirebbe danneggiata.

Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a toccare quasi la banchina delle navi porta container. Veloce dirigo da quella parte, ma non si vede niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Agguanto il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere il timone dritto per non andare a sbattere contro la banchina. Il terrore mi attraversa tutto il corpo, e sembra che continui la corsa trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.

Un’entrata secondaria sembra indicarmi la possibilità di un’ulteriore insenatura, ci infiliamo all’interno con la speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio, Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata da dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. E’ stato un battesimo di fuoco, anzi per essere precisi una cresima, e lo schiaffo non è stato per niente leggero.

Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale: sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e col motore a pieni giri per contrastare il vento. Al primo errore siamo a scogli!

Non ce la faccio più, sono a pezzi, ho le braccia indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del corpo. Sono infreddolito e tremante e col morale sotto il livello del mare.

Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra – pieno, per la maggior parte, di pescherecci d’alto mare: neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo intravedo, sotto una luce gialla, degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo m’ illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela messe l’una a fianco all’altra, mi avvicino facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento – che non ne vuol sapere di mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP! In rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: la cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese accusandosi a vicenda. Le imprecazioni inviate da me all’indirizzo dei due sono simili a una raffica di mitra inarrestabile. Intanto Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado in panico.

Eccomi qua, di nuovo nei guai, devo agire immediatamente prima che andiamo a sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne do volta un’estremità, e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto annaspando nell’acqua lercia, mi dibatto cercando di risalire e guadagnare aria, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene sotto contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…

Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine braccia amiche ci fanno accostare legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che c’è una solidarietà per mare che se ci fosse sulla terra il mondo sarebbe un posto migliore.

Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.

Share This:

Sono solo.

Sono solo, Emilio è partito…

Gibilterra: un pezzo di roccia a sud della penisola Iberica; un pezzo d’Inghilterra che sonnecchia adagiata su vecchie storie di mare; qui l’aria n’è permeata, tutto parla di imprese avventurose e di audaci capitani che sfidavano gli oceani. Ecco, La Rocca: un imponente promontorio che si allunga come un dito accusatore verso l’Africa. Provo la stessa sensazione degli antichi marinai che avevano paura di superare le Colonne d’Ercole, convinti che si precipitasse oltre la fine del mondo. Anahita riposa tranquillamente ormeggiata al pontile dello Sheppard’s Marina. Il momento è arrivato, l’ansia dimora nella mia mente già da un po’: sto per affrontare l’Atlantico da solo per la prima volta, e ho paura di precipitare oltre l’orizzonte.

Anahita mi guarda e sembra chiedermi verso quale avventura la stia portando. Già è un motivo d’orgoglio vederla qua, alle porte dell’Atlantico. Anahita, la maestosa, madre di Mitra, dea della fertilità e della maternità, colei che nutre, colei che protegge, colei che governa gli eventi atmosferici: l’equivalente latino di Immacolata…

E’ buio, chissà quanto tempo sono stato sul pontile a guardare la mia barca? E’ tempo di andare a letto, domani all’alba si parte.

C’è un’aria tranquilla, una leggera nebbia galleggia sull’acqua, e sembra che il mare la stia inalando. Ho deciso, calo sul pontile e porto le gambe a sgranchirsi per l’ultima volta, il Marina è deserto, solo qualche mattiniero come me che fa gli ultimi preparativi prima di partire. Sento il corpo attraversato da strani brividi, forse sono troppo teso, mi vedo come l’ultima foglia che cerca di restare aggrappata al ramo di un albero ormai spogliato completamente dall’inverno.

Mollo gli ormeggi, esco dal Marina lentamente e punto verso lo Stretto. Passo in mezzo a decine di grosse navi all’ancora nel golfo di Algeciras: giganti metallici che incombono su di me e Anahita facendoci sentire ancora più piccoli. Accendo la radio e ascolto il primo bollettino meteo del giorno: lo spagnolo è una lingua gradevole. Uno sciacquio sospetto mi distoglie, prendo la telecamera e vado a immortalare una coppia di delfini che giocano sull’onda creata a prua da Anahita. Alzo le vele, le metto a segno e dirigo verso l’avventura.

E’ il momento di far lavorare Mustafà: monto la pala a vento, tolgo il fermo, regolo la ghiera e lascio che lui trovi la giusta rotta.

Molti pensano che un navigatore solitario sia completamente solo, non è così: c’è la barca, che è la tua compagna di avventure, senza la quale non andresti da nessuna parte. Con la quale parli, non perché sei pazzo, ma perché la senti come un essere pensante, come una madre, una sorella, come una sposa. Lei ti sopporta e ti conduce in porti sicuri, chiedendoti solo di essere curata. Lei è il tuo guscio, il tuo bozzolo, la tua tranquillità.

Poi c’è Mustafà, che sta di guardia ventiquattro ore al giorno: non mangia, non beve, non parla, non dorme e conduce la barca con qualsiasi mare e in qualsiasi condizione, mentre tu sei al sicuro dentro il tuo guscio. Perché l’abbiano chiamato Mustafà, un timone a vento, non lo so, ma è sicuramente un compagno di viaggio indispensabile per un solitario. Come fai a sentirti solo? C’è molta gente che è più sola di me vivendo in mezzo ai propri simili.

Per colpa dei delfini, mi sono perso il bollettino meteo, il prossimo sarà tra sei ore. Questi sono errori che non si fanno.

Lo Stretto di Gibilterra sembra un’autostrada: barche, traghetti e superpetroliere che si incrociano continuamente in uno degli specchi d’acqua più trafficati del globo. Là, un branco di balene che a coppie si dirigono verso l’Atlantico, sono un po’ lontane, ma mi emoziono lo stesso. Queste sono scene che ti fanno pensare a un mare pieno di vita che viene costantemente inquinato dall’invadenza umana.

La radio stride ed emette il bollettino meteo: “… componente oeste fuerza cinco, marejada a fuerte marejada… ”. Ci sarà un po’ di mare e vento contrario, dovrò risalirlo, speriamo che non aumenti.

Meglio che mi preparo un panino. Stare dentro a cucinare può essere pericoloso con tutte le navi che incrociano in questa zona. Mustafà non si sta comportando bene, Anahita va a zig-zag, c’è qualcosa che mi sfugge, la pala oscilla troppo, forse se mettessi un qualcosa di elastico che facesse da freno alle forti oscillazioni… Ecco, un anello fatto con un pezzo di camera d’aria può essere utile, proviamo. Adesso sì, va meglio, Mustafà lavora bene e la scia di Anahita è dritta come una spada.

Non riesco a rilassarmi, vorrei leggere, ma apro il libro e vedo solo dei piccoli segni neri incomprensibili che mi danzano davanti agli occhi. Mi sento irrequieto, devo rilassarmi, ma come si fa?

E’ il momento di attraversare lo Stretto, la parte più pericolosa. Le grosse navi che incrociano – anche se hanno tutta una serie di strumentazioni sofisticate a bordo – non badano molto a un moscerino che galleggia. Tarifa è ormai alle mie spalle, comincio a sentire il respiro dell’Atlantico, ma ho la sensazione che stia respirando un po’ troppo forte, e la cosa non mi piace. E puntuale il meteo elenca la sua nemesi:“… componente oeste fuerza ocho, mar gruesa aumentando rapidamente a muy gruesa… ”. Rintocchi funerei rimbombano nella mia povera testa, finché un campanello d’allarme mi scuote facendomi destare da un torpore, seppur momentaneo, ma intenso. C’è una sola parola per riassumere il bollettino meteo. Burrasca!

Ecco, l’Atlantico mi sta dando il benvenuto. Sono esattamente a metà strada tra una costa e l’altra, e sono esattamente in un mare di guai: è il caso di dirlo.

Tra poco farà buio, ho appena superato Tangeri e mancano sette miglia per Cap Spartel, se lo doppio ho più possibilità di farla franca, posso virare e prendere il mare di poppa.

Il respiro dell’Atlantico aumenta fino a diventare un soffio forte, e dopo un po’ uno sbuffo teso. Anahita inizia a risentire dello sforzo, la vedo che soffre: batte sull’onda pesantemente. Il mare continua ad aumentare, il vento spinge le onde nello Stretto, che aumentano a dismisura. Anahita arranca sempre di più; per fortuna che Mustafà resiste. Vengo sballottato da una parte all’altra del pozzetto nonostante l’imbracatura di sicurezza.

Ormai è buio, le luci sono lontane, sono solo fuori alla porta, ma l’Atlantico me l’ha chiusa in faccia. Adesso non ci sono più soffi, non ci sono più sbuffi, ci sono solo raffiche. Ululati che ci investono, che ci martellano e ci spingono indietro. Un suono familiare mi distrae, un suono che riesco a sentire nonostante il vento. “Sono Emilio! Mi trovo a Marbella, qui è un inferno ci sono cinquanta nodi di vento, e da te?”. Non gli rispondo, sono troppo impaurito, stacco il telefonino e mi metto al timone. Viro e punto sul porto di Tangeri.

Ci avviciniamo alla costa e le onde sono più alte e più micidiali di prima, cominciano a essere molto più ravvicinate e frangono inesorabili. Sballottiamo in acque burrascose col vento che grida nelle sartie. Ho le braccia indolenzite dalla tensione che il timone mi costringe a imprimere a ogni ingavonata. Mancano due miglia all’entrata del porto, siamo sopraffatti da treni di onde che ci martellano con accanimento. Vedo gli scogli che si avvicinano minacciosi, cerco di virare a sinistra, ma Anahita è preda dei frangenti e non risponde. Grosse gocce di sudore mi scivolano lungo la schiena in una notte buia e fredda. Mi aggrappo al timone e dò tutta la barra a sinistra, sono al limite delle mie possibilità, non so più cosa fare: siamo schiavi dei flutti. Un’onda anomala ci ghermisce e ci spinge verso l’alto, trasformando Anahita in un otto volante, perdo la presa sul timone e cado nel pozzetto battendo la testa su una sporgenza, sprofondo in un’oscurità momentanea che mi avvinghia cercando di trattenermi, mentre Anahita batte con forza nell’incavo dell’onda successiva e si traversa. Si aprono le cateratte e ci sommergono totalmente. E’ finita!

Un silenzio improvviso e sconosciuto ci avvolge completamente, come se una mano divina avesse posto una teca sopra lo specchio d’acqua in cui ci troviamo. Un provvidenziale vuoto d’aria permette ad Anahita di riprendersi, e con uno scatto felino recupera l’equilibrio, rimettendosi miracolosamente in rotta. Raggiungo il timone e mi ci lego come Ulisse al canto delle sirene. Tremo, mentre lunghissimi minuti segnano la distanza che ci separa dalla salvezza.

Ecco! Il molo di sopravvento, ci siamo quasi! Viro a dritta con decisione e, come una magia, tutto si ferma. Resto qualche secondo stordito e completamente inerme: mi rimbombano ancora nella testa allarmanti residui di segnali di pericolo registrati dal mio cervello, insieme a immagini disastrose e agghiaccianti. Tiro un profondo sospiro di sollievo e mi volto in direzione dell’Atlantico. E in lontananza, appena sopra le grandi masse d’acqua vedo una sfera gialla che si affaccia dietro alle nuvole: è la Luna.

Share This:

Gli ho dato un taglio.

Il buio si stava allontanando, sbadigliando dietro l’orizzonte, cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. La radio iniziò a gracchiare suoni incomprensibili, poi una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “… vento da nord est con rinforzi  fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso… ”  Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.

Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, i cui  rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle  elevate pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità – mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, abbattendosi su di noi senza pietà. Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte ad ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura mista a rabbia attraversarono il mio corpo con un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura e, dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare quel sacro fluido che  trattiene la vita. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellandoci continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie prive di vela, Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.

E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”  si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.

All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla tagliata e macchiata di sangue, il contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.

Un infermiere comparve tra la folla che si aprì come le acque del mar rosso, e facendomi adagiare sulla barella mi chiese: «Quiere beber?». «Sì, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.

Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.

Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi  guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»

La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.

Share This: