Quante vite viviamo in una vita?
Quante…
Quante vite viviamo in una vita?
Sono resistente all’acqua fino alla gola
Quante vite viviamo in una vita?
Quanti pezzi di cuore lasciamo lungo il cammino della nostra vita?
E’ buio, sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto s’illuminano squarciando il buio con saette accecanti, poi un successivo basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.
Ci troviamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente Africano, siamo appena usciti indenni da un’infida burrasca. Il vento picchia ancora forte ruggendo sull’attrezzatura di Anahita, che nonostante sia priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, almeno adesso siamo al riparo dalle onde. Mi sono accorto di non avere la mappa particolareggiata del porto, il che significa che è come trovarsi in un labirinto, al buio, dove non si riescono a definire neanche le pareti. Procediamo attenti, ma con difficoltà, il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confondono senza darmi la possibilità di individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzoni illuminati a giorno che galleggiano sull’acqua smossa dal vento forte, nonostante l’apparente densità oleosa e la puzza che mi offende le narici. Sembra strano, ma sto pensando seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, credo però che Anahita ne uscirebbe danneggiata.
Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a toccare quasi la banchina delle navi porta container. Veloce dirigo da quella parte, ma non si vede niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Agguanto il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere il timone dritto per non andare a sbattere contro la banchina. Il terrore mi attraversa tutto il corpo, e sembra che continui la corsa trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.
Un’entrata secondaria sembra indicarmi la possibilità di un’ulteriore insenatura, ci infiliamo all’interno con la speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio, Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata da dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. E’ stato un battesimo di fuoco, anzi per essere precisi una cresima, e lo schiaffo non è stato per niente leggero.
Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale: sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e col motore a pieni giri per contrastare il vento. Al primo errore siamo a scogli!
Non ce la faccio più, sono a pezzi, ho le braccia indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del corpo. Sono infreddolito e tremante e col morale sotto il livello del mare.
Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra – pieno, per la maggior parte, di pescherecci d’alto mare: neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo intravedo, sotto una luce gialla, degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo m’ illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela messe l’una a fianco all’altra, mi avvicino facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento – che non ne vuol sapere di mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP! In rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: la cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese accusandosi a vicenda. Le imprecazioni inviate da me all’indirizzo dei due sono simili a una raffica di mitra inarrestabile. Intanto Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado in panico.
Eccomi qua, di nuovo nei guai, devo agire immediatamente prima che andiamo a sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne do volta un’estremità, e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto annaspando nell’acqua lercia, mi dibatto cercando di risalire e guadagnare aria, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene sotto contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…
Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine braccia amiche ci fanno accostare legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che c’è una solidarietà per mare che se ci fosse sulla terra il mondo sarebbe un posto migliore.
Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.
Amo il tuo profumo… così dolce, così gentile… lo cerco sempre in ogni donna che incrocio; mi aleggia intorno sfuggente, come se avesse fretta di disperdersi.
Allungo il corpo inspirando profondamente finché non mi arriva nel cervello; finché non mi appare il tuo viso. Il tuo viso, che danza lungo i bordi della mia mente. Il tuo viso, che scivola lungo i miei pensieri tuffandosi nei miei ricordi. Rotolo su di essi inciampando e rimbalzando a ogni caduta per trovarmi, infine, disteso sul tuo ventre. Giaccio lì, immobile per un po’, ma ti dissolvi in mille luci colorate che si rincorrono. Resto solo. Ecco! Adesso ti rivedo, sei lì, in fondo. Ti vedo in mezzo a tante note colorate che danzano leggere chiuse in bolle di sapone; provo a bucarle, ma rimbalzano e si allontanano indifferenti. Guardo il mio corpo: è inerme, privo d’aria; alzo il mento verso l’alto per trasformare i tuoi lineamenti in qualcosa di respirabile per riprender fiato. Chissà se ti conservassi in una boccetta e ti tenessi su una mensola cosa penseresti? Potrei cospargermi la pelle della tua essenza tutte le mattine, così dai pori entreresti nel mio sangue e sarei sempre avvolto dal tuo profumo.
Comincio a sentirmi strano, tra poco, lo so, diventerò solido e poi tutto tornerà come prima.
Scenderò dalla giostra.
Non riesco a muovermi. Dài, staccati da me, non vedi che le mie labbra bruciano? Guarda, si fondono con le tue. Oddio! Adesso si sciolgono, si stanno sciogliendo… si amalgamano; vedi come coagulano e si uniscono in un’unica forma?
Guarda i miei occhi, li vedi i miei occhi? No, non li vedi, lo so. Li tengo bassi perché non riesco a guardarti: ho paura. Potresti farmi una magia; farmi bruciare tra fiamme di piacere o cullarmi tra i carboni ardenti, che ne so cosa potresti farmi? Comunque voglio che tu lo faccia, dài, fallo!
Osserva come bevo i tuoi bisbigli, lo vedi? Mi sto dissetando e più ne bevo più ho sete; mi si dilaterà la pancia fino a scoppiare, sarà un botto tremendo, un incredibile sbuffo d’aria.
Ho preso coraggio, ti guardo; adesso ho fame, anche tu hai fame, lo vedo dai tuoi occhi, questi occhi che vengono da lontano. Le nostre mani si frugano insistenti, le dita scivolano fluide, i seni affannano, si gonfiano, le gambe si intrecciano e si annodano strette… sessi affamati si cibano l’uno dell’altro. Ancora, dài, ancora… corpi spossati ansimano… tu sospiri, poi gemi, infine palpiti… il soffitto è bianco, anche il fondo dei tuoi occhi lo è.
Adesso i nostri respiri si mescolano, soffiano l’uno intorno all’altro: due piccoli turbini avidi che si rincorrono nell’aria quieti. Guarda, sembra si colorino; ogni spira ha un colore diverso, bello, no?
Respiriamo un poco meglio adesso, mi ossigeni.
Cosa c’è dietro quello sguardo? Cosa c’è dietro quel sorriso? Quel sorriso che non appartiene alla tua bocca: forestiero, quasi alieno.
Interviene nelle foto, si trattiene qualche secondo poi si allontana, svanisce nel nulla, come se non fosse mai esistito. Come se l’avessi preso in affitto solo un attimo; solo per quello scatto. Come un costume di carnevale da usare solo il martedì grasso. Una maschera sulla maschera. Tanto, poi verrà mercoledì e poi giovedì, e poi ancora…
Fai capolino dentro l’immagine come se giocassi a nascondino, lasciando agli occhi il compito di presentarti a chi non ti conosce ancora. C’è qualcosa dietro quegli occhi, qualcosa di triste: sono i tuoi sogni che rimbalzano in faccia alla realtà e tornano indietro. Li raccogli e li conservi in uno scrigno, con la speranza di riaprirlo un domani, nella nuova dimensione a cui ti stai preparando. Ogni tanto ne prendi un pezzo, spazzoli via un po’ di fantasia – tanto per renderlo comprensibile agli occhi dei pagani – e lo pubblichi. Chi ti capisce ti ama, pensi.
Lo vedi che passa, ti supera, ti segna nel viso e nel corpo, ma i segni più profondi li lascia nella tua mente. Macchie sulla pelle e nell’anima, macchie indelebili, macchie di tempo che corre.
Se non fosse per quegli occhi – che riuscirei a leggere anche al buio – nemmeno io mi accorgerei di quello che hai dentro. Ho questa facoltà: leggo esattamente cosa sei e cosa vuoi diventare.
C’incontreremo, lo so, c’incontreremo in quella dimensione a cui ti stai preparando e chissà che forse…
Varchi la soglia della mia anima col mento insolente e l’incedere arrogante, il rumore mi rintrona fin dentro il più recondito dei miei desideri.
Provo a sbarrarti l’accesso empiendomi della tua falsa condiscendenza, ma riesci sempre a trovare una breccia per entrare con caparbietà. Senza scrupoli. Provo a sfuggirti ogni volta che il tuo sguardo punta nella mia direzione, cercando di trovare un angolo dove nascondermi. Mi sfiori la spalla appena tento di far sbiadire la tua immagine dai miei occhi drogati; e ti basta un pennello e un po’ di colore per farmi illuminare di speranza. Non trovo pace. Ma cos’è la pace? Se la pace è soffocare il desiderio non la cerco, non mi serve. Cerco emozioni forti, sanguigne, struggenti, travolgenti; cerco una sofferenza appagante; un dolore riempitivo; una palpitazione avvolgente. Voglio il Pathos! Lo voglio sciogliere nel caffè la mattina; asciugarmici dopo la doccia; indossarlo prima di uscire; condirci l’insalata a pranzo; grattarlo sulla minestra la sera; gustarlo in una coppa di cristallo. E tenerlo sveglio la notte quando non dormo e guardo oltre il soffitto.
Ti alzi, il tuo corpo diffonde un profumo di essenze fragranti e di desiderio appagato; ti soffermi davanti allo specchio esplorandoti il viso in cerca di tracce di peccato;
ti passo accanto, mi prendi le braccia e ti ci avvolgi i fianchi strusciando la schiena contro il mio corpo nudo, mentre i tuoi capelli m’inondano la spalla avvolgendola in un mantello odoroso di frutti di bosco. Sospiri leggermente come se ti apprestassi a sorseggiare una bevanda calda. Improvvisamente vieni attraversata da un brivido che mi arriva direttamente al ventre… sono sommerso completamente da quell’unico e singolo fremito, che si fa strada nel mio corpo sguarnito di qualsiasi difesa. E’ una vibrazione forte, ancestrale, che s’impossessa di una mente ormai schiava dei tuoi gemiti. Mi prendi le mani e cominci a dirigerle lungo un percorso conosciuto solo dai tuoi sensi, le accompagni con determinazione indicando loro la strada verso i punti più sensibili e misteriosi del tuo corpo che vibra. Inondi le mie mani col tuo umore, poi ti inclini verso la parete accogliendomi nel profondo calore del tuo essere…
Ed è in quel momento che le nostre anime diventano schiave dell’istinto e della passione.
Eccoti finalmente. Anche stamattina guardi nella borsa; sbuffi indispettita spostando la ciocca di capelli che ti cade sugli occhi ogni volta che abbassi la testa, poi appoggi la borsa sul tetto dell’auto e ti dedichi alla ricerca delle chiavi come se scavassi una buca nel terreno.
Fa freddo, quel cappotto lungo con il bavero largo ti modella magnificamente il corpo; invano tento di penetrarlo con lo sguardo. Ti desidero. Attraverso la strada e vengo verso di te; alzi la testa, mi guardi e rimani lì, ferma, solo gli occhi si muovono velocemente. Restiamo sospesi per lunghissimi secondi l’uno nello sguardo dell’altro. Ti accarezzo il viso, esiti, e poi strofini la guancia nella mia mano; ti cingo la vita e comincio a baciarti; accompagni i miei spostamenti con studiate angolazioni della testa permettendo alle mie labbra di esplorare la superficie del tuo collo flessuoso. La mia bocca lascia una scia ardente mentre la spingo delicatamente dietro il tuo orecchio, abbassi la testa e mi sposto lungo la nuca percorrendola a piccoli morsi, poi di nuovo sul collo, infine scivolo sulle tue labbra cibandomene avidamente. Ti apro il cappotto per cogliere quanta verità vi sia all’interno; frugo sotto i tuoi vestiti alla scoperta delle tue forme scivolando con le mani lungo il corpo, finché non si riempiono del tuo seno, finché le mie dita sfiorano i tuoi capezzoli turgidi d’eccitamento. Mi cingi il collo, ti ci aggrappi e avvolgi le gambe intorno ai miei fianchi restando sospesa tra la voglia di essere posseduta subito e quella di trovare una posizione più comoda. Ma anche così riesco a entrare in te. Comincio a spingere piano, ma con determinazione, e a ogni spinta la ciocca dei tuoi capelli sobbalza incontrollata, mentre a ogni sguardo il bianco dei tuoi occhi prende il posto dell’iride. Il tuo respiro mi accarezza l’orecchio con sussurri e inviti a spinte ancora più possenti. Non c’è più niente intorno a noi, tutto gira vorticosamente. Cavalchiamo questo momento cercando di farlo durare il più possibile, sorretti solo dal nostro desiderio…
Guardo oltre il tuo viso. Da un albero uno stormo di passeri spicca il volo.