Navigare…

Navigare mi ha sempre affascinato, ho sempre ritenuto che i navigatori fossero delle persone speciali: pregne di umanità, altruismo, sensibilità.
Oggi, con le nuove tecnologie, qualsiasi incosciente può decidere di prendere il mare su una qualsiasi barca che abbia tutta una serie di apparecchiature elettroniche a bordo; imbarcando con sé anche l’irresponsabilità, la presunzione e la meschinità. Queste persone sono un grosso pericolo per gli altri e per se stessi, ma il mare questo lo sa bene.

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La Ninfa

I vapori saturavano la grotta condensandosi in gocce sotto la volta che, gravide, cadevano di tanto in tanto. L’uomo galleggiava leggero lasciandosi portare dalla piccola corrente creata dal getto d’acqua che sgorgava da un’anfora incastrata nel muro appena sopra la vasca. Qualcuno si era preoccupato di profumare l’acqua con essenze di eucalipto e alloro, più un altro profumo che non riusciva a identificare. Si sentiva avvolto in un limbo benefico. Era come se fosse lì dalla nascita, anzi, da molto prima. Gli sembrava come se il tempo stesse decidendo se continuare il suo corso o fermarsi a contemplare la scena, fissandola in un tempo senza tempo. Un piacevole calore gli faceva scorrere stille di perle lucenti che gli scivolano lentamente lungo il viso gocciolando nell’acqua. Sulla parete piccoli pezzetti di maiolica creavano un elaborato mosaico con scene di ninfe velate e ancelle con anfore e ghirlande di fiori, con piccole sorgenti che s’immettevano in una vasca simile a quella in cui si trovava l’uomo. Il tutto era incorniciato da linee ondulate di disegni moreschi che davano l’aspetto di un oriente antico e misterioso.

Le ancelle raccoglievano l’acqua sorgiva in piccole anfore disegnate delicatamente e, dopo averle profumate di oli fragranti, le versavano lungo il corpo delle ninfe – appena coperte da sottili veli di mussola. Alcune di esse si rincorrevano in cerchio saltando e danzando, per poi immergersi allegre nella piscina. Le voci gli giungevano chiare, contornate da fruscii, sciacquii e risolini allegri. Una melodia sconosciuta si fece strada, inerpicandosi delicatamente lungo il soffitto, per poi degradare lungo le pareti, fino a galleggiare sull’acqua.

Lei comparve da dietro la colonna incamminandosi lungo la vasca: il tessuto che l’avvolgeva ondeggiava spinto dall’andamento sinuoso delle anche. Si soffermò un attimo sorridendogli e poi s’immerse – mentre l’acqua si apriva al suo passaggio, per poi richiudersi alle sue spalle – in un liquido abbraccio contornato da lievi mulinelli, che le accarezzavano le cosce mentre avanzava. Sulla parete le ninfe li osservavano e ammiccano con sorrisi complici e piccole spinte dei gomiti. L’uomo rimase sdraiato sull’acqua, mentre veniva lambito dalle piccole onde create da lei, che era appena emersa al suo fianco. Le mani si toccarono con dita avide e curiose, poi le labbra si sfiorarono strisciando sulla pelle madida del sapore termale di sorgente calda. Infine le membra si unirono – aderendo perfettamente – in un ripetitivo e continuo orgasmo. Fino a quando un canto leggero in una lingua ancestrale iniziò a seguire il ritmo dei loro corpi. Fino a quando la melodia saturò l’ambiente. Fino a quando il tempo scordò il passato e abbandonò il futuro. Fino a quando dimenticò se stesso.

Era buio, l’inserviente vide il corpo galleggiare immobile con la faccia sotto e le braccia allargate. Si precipitò nella vasca con la speranza che l’uomo fosse ancora vivo. Ma il suo cuore s’era fermato già da un pezzo. “Dio”, pensò. “E’ il terzo che muore in un mese”.

Mentre sollevava il corpo appoggiandolo sul pavimento, il suo sguardo cadde sulla la scena lungo la parete – appena illuminata da una cono di luce soffusa. “Strano” pensò. “Eppure quella ninfa me la ricordavo nascosta dietro una colonna”.

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All’egoismo…

All’egoismo dell’uomo preferisco il mare in tempesta.

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Ci sono…

Ci sono due tipi di marinai, quello che naviga e quello che sta in porto: il primo arricchisce la propria conoscenza, il secondo arricchisce il porto turistico.

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Long leg

Il faro spuntava da un punto sabbioso del litorale, leggermente ondulato da rena fine e bianca, che sfumava nel grigio. La solitudine del posto e il silenzio contrastava con la sonorità dei colori del paesaggio. Quella melodia cromatica era comparabile a una musica lontana e silente, oltre la quale c’era l’oceano azzurro e sconfinato, che si fondeva all’orizzonte con il bianco celeste del cielo. Una piccola barca con le vele latine consunte dal tempo, si faceva strada a fatica lungo la costa, beccheggiando vistosamente.
A bordo un uomo, la cui età era un mistero anche per se stesso, manovrava con disinvoltura le scotte arse dal sale. Lo sguardo, rivolto verso l’infinito, era contornato da una folta barba canuta dalla quale spuntava una pipa ottenuta da una strana conchiglia a forma di siluro. Era l’unico essere vivente nel raggio di duecento miglia.

Gambalunga – così era chiamata quella striscia di sabbia – ormai era stata abbandonata. La gente aveva lasciato quel pezzo di terra desolato anni addietro. Un posto arido dove l’unico contrasto di colore con le dune, lo dava il verde tetro di alcuni bassi cespugli di conifere. L’uomo si girò verso il faro – con la recondita speranza di vedervi affacciato il guardiano con il suo grosso binocolo. Alzò il braccio in segno di saluto, mentre nella sua mente un cane abbaiava scodinzolando lungo la battigia, rincorso da un bambino dai capelli biondo cenere che cercava di trattenere un aquilone rapito dal vento. Ma non ricevette alcuna risposta. Ricordava benissimo quel bambino che si costruiva gli aquiloni con la cartapesta e la colla di merluzzo. C’era ancora qualche alberello a quei tempi, e lui andava sempre alla ricerca dei rami più sottili e leggeri per farne intelaiature per gli aquiloni. Anche il cane ricordava benissimo: un bastardino pezzato che era il suo compagno di giochi. Sì, si ricordava benissimo di Scuffia. E di quell’omone grande e grosso col suo grosso binocolo che si appoggiava alla balaustra ogni volta che usciva fuori a controllare il mare. Ricordava anche la moglie del guardiano del faro: piccola e minuta, sempre indaffarata, che lo riprendeva sempre ogni volta che tornava a casa con le ginocchia sbucciate. Come poteva dimenticare i propri genitori? Come poteva dimenticare se stesso? E, alzandosi il bavero, si rintanò di nuovo nel suo mondo galleggiante.

La tappa era lunga: tre giorni di oceano insidioso in solitudine; tre giorni di veglia e di spruzzi di sale conditi da riflessioni profonde. La piccola barca era ormai vecchia, il legno scricchiolava troppo e da più parti faceva acqua. Aveva bisogno di essere messa a secco e calafatata completamente. Andavano sostituite le vele e le sartie, e chissà che altro ancora. Ma non aveva né la forza né la voglia di farlo. Ormai i tempi erano cambiati, avevano accelerato e lui era rimasto indietro; solo su quel pezzo di terra sabbiosa lontano duecento miglia dalla civiltà. Guardò avanti: l’estremità del capo era vicina. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», si disse. Ormai la decisione era stata presa: voleva dirigersi sul continente, unirsi ai suoi simili, mischiarsi in mezzo alla gente. Poteva trovare un lavoro, per esempio, poteva insegnare ai giovani l’arte della navigazione, come fare i nodi, come pescare i tonni. E passare le serate alla locanda a ingozzarsi di birra spillata e raccontar di mare. Ecco cosa stava per fare. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», ripeté.

Le prime onde dell’oceano aggredirono la prua e cominciarono a far impennare la piccola barca. Ebbe un momento di forte sgomento: un pensiero tetro gli attraversò tutto il corpo e si rintanò nella parte più recondita del suo io.«Sono vecchio ormai!» disse al vento.

E dal suo feudo di legno si preparò a invadere il mare.

Le onde baciavano con veemenza la costa del continente portando a riva i resti di una piccola barca con qualche pezzo di vela latina. Tra le sartie vi era incastrata una pipa ricavata da una conchiglia a forma di siluro.

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Miranda e la tempesta

La tempesta era arrivata al massimo della sua forza distruttrice, le onde erano diventate alte e frangenti. Miranda, appoggiata a uno scoglio basso, cercava di trattenere i lunghi capelli che le impedivano di guardare verso il mare; mentre una mano istintivamente andava al cuore – come se volesse con essa sostenere l’emozione di quel momento tragico di tensione. La caravella era ormai segnata: grossi cavalloni stavano portando a riva i primi pezzi di pennoni strappati via dalla tempesta. Il vascello non riusciva a superare il vento, che impetuoso, veniva spinto verso le rocce. Miranda stava lì, ipnotizzata dalla scena, e nonostante non fosse esperta di vento e di mare, sapeva che presto la caravella si sarebbe rovinosamente distrutta sugli scogli. Un alto promontorio si ergeva incombente sulla rotta della nave, che cercava di guadagnare il largo risalendo la furia del vento. Ma le onde gigantesche la costringevano sempre di più verso quella sporgenza mostruosa. Miranda era atterrita, la scena aveva un che di surreale, tutto sembrava fermo, come in un dipinto del primo novecento. Dove il respiro di lei era l’unica cosa che facesse rumore in quella tempesta. Lo scricchiolio assordante seguito da un’esplosione di fasciame annunciò l’avvenuta catastrofe, che ruppe quel silenzio metafisico. Nel giro di pochi secondi, in quella zona sotto il promontorio, erano rimaste solo le onde. L’angoscia di Miranda si manifestò con un lungo e profondo grido di dolore. S’inginocchiò e pianse fino a prosciugarsi gli occhi – su quella spiaggia fatta solo di rocce che erano tutt’uno con il colore dei suoi capelli.

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L’Incappucciato

Nubi opprimenti celano le vette delle montagne. Gli alberi sono grevi di neve tanto da far piegare i rami fin quasi al terreno. Fiocchi accecanti calano senza sosta sul paesaggio silente. Un uomo, ingobbito nel suo mantello, s’inoltra lungo un sentiero fangoso cosparso di pietre traditrici, mentre il cavallo stenta a restare in equilibrio trascinandosi a fatica sul terreno impervio. Le froge dell’animale creano due piccoli geyser che divergono, trasformandosi in un denso vapore grigio. Lui oscilla lentamente accompagnando i movimenti incerti del cavallo che avanza sospettoso.

Una sagoma deforme appare al centro del sentiero da una nebbia fitta e maleodorante: avanza, incappucciato, in un saio polveroso e consunto cinto da un cordone di canapa. L’ incappucciato alza il braccio scarno, ricoperto da una pelle raggrinzita, e fa cenno loro di fermarsi. L’uomo si arresta a pochi metri ed estrae la spada, facendo scartare il cavallo innervosito dalla mossa inattesa. L’incappucciato s’inginocchia e abbassa la testa in segno di sottomissione, tira fuori dal sacco un piccolo scrigno dorato cosparso di pietre luccicanti e l’offre al cavaliere. Il giovane scivola dalla sella e si avvicina all’uomo rinfoderando la spada e sovrastandolo con la sua mole. L’incappucciato apre lo scrigno, e da esso si sprigiona un piccolo vortice che a mano a mano diventa sempre più grande, fino ad avvolgere completamente l’uomo, imprigionandolo tra le sue spire. Dopodiché, fulmineo, si ritrae nello scrigno. L’incappucciato rimette l’oggetto nel sacco monta sul cavallo e lo spinge al galoppo lungo l’aspro sentiero. Una risata agghiacciante attraversa il bosco. Inaspettatamente il cavallo punta le zampe e si blocca, proiettando l’incappucciato in un capitombolo che termina con un tonfo rumoroso su una sporgenza rocciosa del terreno. L’animale si avvicina al sacco e con lo zoccolo spinge fuori lo scrigno, mandandolo a sbattere contro un albero e facendone aprire il coperchio. Di nuovo il vortice si sprigiona, e di nuovo aumenta di dimensioni finché non riappare l’uomo che, con un sorriso complice, si avvicina all’animale accarezzandolo sul muso e dice: “Uno stregone sciocco e avventato vero Pellediluna?”. Lei scuote la testa, soffia una grossa quantità di aria e scalciando risponde:“Uno stupido uomo di un’altra dimensione amore”.

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Il trafficante di sogni

Dreamson la vide uscire dall’acqua: era ammantata da un’aura misteriosa, con passo lieve si diresse lentamente verso di lui; il corpo, color ambra, era cosparso di umide perle di luce; lunghi capelli neri e morbidi le ricadevano sul fondo schiena sinuoso. Con fare felino la donna si sdraiò accanto a lui, gli sorrise e lo baciò intensamente, e senza parlare si mise a cavalcioni su di lui. Dreamson si sentiva avvolto da una strana alchimia. Lei iniziò a muovere i fianchi con ritmo lento, sospirando dolci suoni in un mantra ignoto, mentre inarcava la schiena ad ogni spinta di lui, soggiogato da quella creatura misteriosa. E in una lirica di sensi mai provati consumarono un singolare, intenso e stravolgente amplesso.

Si svegliò turbato e disse:“No, questo non lo vendo, questo sogno lo terrò per me!”
Si tolse la mascherina da notte e si diresse alla consolle per spegnere l’impianto: una sofisticata apparecchiatura che trasformava i sogni in impulsi, i quali, trasmessi a un computer, venivano ricodificati e trasformati di nuovo in immagini e suoni. L’impianto era alimentato con una serie avanzata di pannelli fotovoltaici creati da lui e posti sulla cima dell’albero su cui viveva nascosto nella foresta Amazzonica. Estrasse la smart card e la nascose in una cavità dell’albero, attraversò a grandi passi il pavimento  – che delimitava un piccolo ambiente fatto di assi di legno posto sopra due grossi rami nodosi –  prese lo zaino se lo mise in spalla e scese giù lungo una scala di corda e, dopo averla occultata attentamente, si diresse verso uno dei tanti affluenti del Rio delle Amazzoni. Dietro un grosso masso, celata da larghe fronde, teneva nascosta una canoa, la fece scivolare nel fiume e pagaiando attentamente si allontanò verso est. Dopo aver navigato lungo il fiume per quattro ore giunse in un piccolo centro abitato e con passo sicuro s’inoltrò in una stradina. Guardandosi intorno estrasse una chiave che apriva un grosso lucchetto posto all’entrata di un garage; montò sul fuoristrada e dopo aver richiuso la saracinesca si diresse alla periferia del pueblo; imboccò un sentiero di terra battuta e continuò a guidare per alcune ore lungo strade sterrate e sconosciute. Arrivò a Manaus nel primo pomeriggio, doveva fare presto a quelle latitudini il sole calava in fretta. Entrò in un autolavaggio e fece ripulire il fuoristrada, dopo  guidò per mezz’ora e posteggiò in una piazza, si avvicinò a un bambino e gli diede cinque dollari e  una busta, il bambino attraversò la piazza e imbucò la busta in una cassetta delle lettere. Dopo aver controllato che tutto fosse andato liscio Dreamson rimontò sul fuoristrada e con discrezione si allontanò rapidamente verso il suo nascondiglio nella foresta. La busta era indirizzata ad un ricettatore di Caracas e conteneva una sottile mascherina da notte, meno sofisticata di quella usata da Dreamson: intessuta da una microscopica rete di contatti neurali che, messa sugli occhi, dava al soggetto esattamente la stessa sensazione di un sogno originale. La mascherina veniva duplicata in alcune migliaia di copie e distribuite ad una sotto rete di spacciatori che, a loro volta, ne facevano ulteriori copie, a discapito della qualità delle immagini e dei suoni. I prezzi variavano da tremila dollari americani per le copie di alta qualità, ai duecento dollari per quelle di qualità più scadente. Al ricevimento della busta il ricettatore accreditava su un conto cifrato della Cayman Security Bank, due milioni di dollari americani, i quali venivano automaticamente divisi su altri quindici conti cifrati di altrettante banche sparse per il mondo. Da alcuni anni e per una ragione inspiegabile, il cinquanta per cento della popolazione terrestre non riusciva più a sognare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva tentato in tutti i modi di debellare il virus che cancellava i sogni, ma a ogni anno che passava gli infetti aumentavano sempre di più. Lo stato d’allerta aveva superato già da tempo la fase sei ed era passato a quello di post-pandemia. La gente andava alla disperata ricerca di esperienze oniriche originali; si era così creato un mercato parallelo e illegale di spaccio di sogni con conseguente dipendenza onirica. C’era gente senza possibilità economiche disposta a rubare o addirittura a uccidere pur di sognare un sogno anche di qualità scadente. Dreamson era il trafficante di sogni più bravo del pianeta, i suoi sogni erano molto richiesti perché era un onironauta: un esperto di sogni lucidi. Riusciva a produrne almeno quattro al mese ma gli costava molto in termini di salute psichica: la mente veniva messa sotto torchio per sfruttare al meglio la qualità delle visioni oniriche. In più il montaggio era duro ed estenuante e lo teneva inchiodato al computer giornate intere, a volte facendogli saltare anche i pasti. Ma quel giorno era contento: il sogno della notte precedente aveva risvegliato in lui delle nuove sensazioni che non provava da tempo e non intendeva condividerle con nessuno.

Giunse al nascondiglio che era già buio, con fatica si arrampicò per la scala di corda ed entrò in casa. Si diresse direttamente alla cavità dell’albero dove aveva nascosto la smart card, la inserì nel computer e avviò l’elaborazione e il montaggio del sogno avuto la notte precedente. Era stanco morto, la giornata era stata lunga e stressante, ma non esitò: accese la consolle, indossò la mascherina da notte e si sdraiò sul letto. Iniziò a fare alcuni esercizi di rilassamento e respirazione lenta per predisporre la mente ad un sogno lucido: il suo proposito era quello di sognare di nuovo la donna misteriosa, ma questa volta controllando il sogno. Iniziò a ripetere lentamente sempre la stessa frase: “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. La frase ripetuta più volte permetteva di sincronizzare gli emisferi cerebrali e di introdurre l’onironauta al passaggio tra veglia e sogno. L’esercizio dava buoni risultati per la tecnica ma non garantiva la scelta del sogno, Dreamson sperava di riuscirci.

I minuti si alternarono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane. Ritornò su quella spiaggia tutte le notti ma senza mai incontrarla, era disperato. Finché una notte: Dreamson indossava uno smoking bianco e un berretto da baseball rosso, guardava verso la distesa d’acqua turchese in attesa di una apparizione che tardava a comparire. Irrequieto iniziò a passeggiare nervosamente sulla battigia avanti e indietro girandosi ogni tanto verso il mare. Lentamente, cominciarono a formarsi alcune piccole onde che a mano a mano aumentavano sempre di più. Il mare iniziò ad agitarsi e poi, dopo un po’, a ribollire. Sembrava come se una forza sovrannaturale stesse cercando di vincere la pressione dell’acqua, ma non ci riuscisse. Dreamson aveva la sensazione che lì sotto si celasse qualcosa di sinistro, cominciò ad arretrare verso la folta boscaglia che si trovava alle sue spalle, ma inciampò in un sasso e cadde. Tentò di rialzarsi ma la sabbia l’avvolgeva sempre di più trattenendolo inesorabilmente. Iniziò a scrollarsela di dosso, mentre i granelli di sabbia s’ingrossavano e scoppiettavano come dei pop-corn impazziti. Improvvisamente sull’acqua si formò una grossa bolla d’aria che esplodendo liberò uno sciame di insetti alieni i quali si diressero verso di lui. Lo sciame iniziò a roteare e a prendere forma, inizialmente amorfa e poi, piano piano, sempre più netta e umana. La donna si manifestò davanti ai suoi occhi circondata da una luce malefica, e con un freddo sorriso gli disse:”Dreamson sono venuta a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Il viso di lei cominciò a sciogliersi lentamente in  un laido susseguirsi di nauseante sfrigolio accompagnato da un verso sconosciuto e raccapricciante, che gli gelò il sangue nelle vene. Si strappo la mascherina da notte e si sedette in mezzo al letto: era completamente zuppo di sudore e faticava a respirare. Uno strano fruscio seguito da un ramo spezzato lo destarono completamente dal torpore post-onirico: aprì una cassapanca e ne estrasse una pistola, uscì in silenzio e si arrampicò sul ramo al di sopra del tetto; si mise disteso e attese, pronto a vendere cara la pelle. Una quindicina di uomini armati fino ai denti e alcuni cecchini posizionati sugli alberi, circondavano il suo nascondiglio. Una voce perentoria che sapeva di legge risuonò in quell’alba appena iniziata: “Dreamson esci dal nascondiglio con le braccia in vista e bene alzate!” “Dreamson se esci subito con le braccia alzate ti prometto che non ti torceremo un capello, hai cinque minuti!” Dreamson malediceva la sua stupidità: erano passate due settimane dall’ultimo invio di merce al ricettatore di Caracas, e questi convinto che lui avesse fatto accordi con qualche suo concorrente, l’aveva sicuramente denunciato. “Maledetto sogno, mi ha stregato” si disse Dreamson. ”Dreamson veniamo a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Tuonò il capo della squadra speciale antionironauti. Un fucile automatico con un binocolo di precisione sparò un solo colpo, gli uccelli tacquero e nella foresta ci fu silenzio.

L’ospedale psichiatrico di Seattle era il più moderno e attrezzato degli Stati Uniti, aveva un padiglione speciale dedicato unicamente alle patologie sulle percezioni derivanti da illusioni e allucinazioni gravi nei malati terminali. Jack, un  grosso omaccione nero alto due metri, iniziò il giro di controllo come ogni mattina. Giunto all’altezza della stanza numero tredici afferrò la ricetrasmittente e chiamò il collega: “Jhon raggiungimi alla tredici presto!”  “Che è successo?” Chiese Jhon. “Dreamson è morto!” rispose Jack. Poco dopo Jhon entrò nella stanza e vide il corpo privo di vita di un uomo col viso deformato da una smorfia di dolore. “Cos’è quella cosa?” Domandò Jhon, indicando un oggetto a fianco al morto, che Jack in precedenza non aveva notato.“Mi sembra una mascherina da notte con una trama di piccoli fili.” rispose Jack rigirandosela tra le mani. “Strano, chissà chi ce l’ha portata qui!”  Ribattè Jhon incuriosito. “Non lo so, ma è meglio che non lo diciamo a nessuno, c’è il rischio che perdiamo il posto” rispose Jack mettendosela in tasca. “Dài andiamo a fare rapporto” insistè Jack, e uscendo buttò la mascherina di Dreamson nel contenitore dei rifiuti speciali.

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Filmati…

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L’esperimento

Si svegliò da un sonno agitato, la sveglia segnava le 06:58; dalla finestra entrava un’aria frizzante di un bel mattino di metà settembre. Non ricordava il sogno ma era certo che non era stato bello: “Forse un incubo” pensò. Cercava di focalizzare i suoi pensieri su quello che aveva sognato, ma niente, non gli tornava in mente assolutamente niente. Si trovò in bagno guardandosi allo specchio: aveva il viso cereo e grosse occhiaie che gli si allungavano fin quasi alle gote: “Non è un bel vedere” si disse. Aprì il rubinetto e con le mani a coppa si spruzzò in faccia grosse quantità di acqua fredda – come se volesse, con quel gesto, cancellare quella sgradevole immagine di sé.

Senza ricordare la dinamica, si ritrovò in cucina con una tazza di caffè in mano, chiedendosi quando fosse successo. Aveva addosso una strana e indefinibile sensazione di disagio che non lo mollava; oltretutto c’era il fatto che non riusciva a ricordare i passaggi dal letto alla finestra e poi al bagno e infine in cucina. Improvvisamente una quantità enorme di informazioni cominciò ad affluire nella sua mente a una velocità impensabile per un cervello umano. Aveva il corpo attraversato da leggeri e continui spasmi, ma una attenta lucidità gli faceva capire di non preoccuparsi e di rilassare la sua mente, anzi di aprirla ancora di più. Senza preavviso gli spasmi aumentarono: cadde sul pavimento e cominciò ad inarcare e raddrizzare la schiena sempre più velocemente. Era lucido, era cosciente, era vivo; la morte non lo preoccupava, sapeva di non morire, sapeva che quello che gli stava succedendo era una prova, era un esame: un esperimento. Una luce intensa lo accecò e perse i sensi.

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