As time goes by

Si tolse i sandali avviandosi lungo la battigia – voleva godersi quello scenario tutto d’un fiato. Il sole aveva tinto di rosso la superficie del mare in quel caldo crepuscolo estivo; stranamente, a quell’ora, la spiaggia era deserta, c’era solo la sagoma di un pescatore seduto sul confine asciutto della sabbia che rammendava una rete più vecchia di lui.
Finalmente s’incontravano: si conoscevano da una settimana, ma era la prima volta che si vedevano da soli. Riconobbe il profilo di lei sullo sfondo rosso del cielo e accelerò il passo, come se volesse accorciare i suoi cinquant’anni. Lei lo vide e avanzò incerta, anche i suoi pensieri erano incerti, tutta la situazione le sembrava incerta. L’ultima storia le aveva lasciato una ferita profonda ed era impaurita: vent’anni di differenza sembravano una lunga striscia d’asfalto infinita. Si guardarono negli occhi, lui era impacciato, riuscì a pronunciare solo un semplice «Ciao». Lei gli rispose con un sorriso poco convinto; era intimorita, ma quell’uomo le piaceva, ne era affascinata; nessuno l’aveva mai trattata con tanta dolcezza.

«Bella questa camicia, ti dona», disse lei per rompere il silenzio.

«L’ho scelta apposta per l’occasione», rispose lui sorridendo.

Si avviarono verso un piccolo bar di legno col tetto di palme, mentre la musica di “As time goes by” si diffondeva fin sopra il mare.

Lui continuava a guardarla con un misto di timore e speranza, indeciso se dichiarare i suoi sentimenti sin dal primo incontro.

«Guarda quel gabbiano», disse lui indicandolo «sembra che sia alla perenne ricerca di qualcosa».

«Cerca solo del cibo», rispose lei.

«No, non guarda sul mare, ma verso l’orizzonte», ribatté lui.

«Qual è la differenza?» Chiese lei.

«Cerca una compagna perduta», rispose lui sorridendo.

«E tu? Anche tu cerchi una compagna?» Domandò lei, osservandolo.

«Ogni uomo deve avere una sua compagna», rispose lui.

«Questo nessuno lo può negare», disse lei.

«E’ sempre la stessa vecchia storia», continuò lui.

«Sì, lo so, l’amore, l’odio, la vita la morte… », disse lei, guardando più lontano del gabbiano.

«Anche la donna ha bisogno dell’uomo», l’interruppe lui.

«Devo andare», disse lei alzandosi.

«No, aspetta… ti rivedrò ancora?» Chiese lui, mentre con la mano cercava di trattenerla.

«Forse, col passare del tempo… », rispose lei, incespicando nelle sue incertezze.

 

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La crepa

Ecco, ti sento arrivare: entri senza curarti di quello che c’è intorno, il mento rivolto verso l’alto e gli occhi che guardano lontano.
I tacchi percuotono il pavimento scandendo la lunghezza del corridoio, mentre il tintinnio delle chiavi dà il tempo ai passi. Ti affacci alla porta, mi guardi, giri le spalle e vai in bagno; sento l’acqua che scorre, suoni ovattati, silenzi voluti, bisbigli clandestini. Poi la porta del bagno si apre e appari nel vapore col tuo asciugamano rosa intorno al corpo; vai in camera da letto; rumori già conosciuti m’arrivano attutiti: il tonfo dell’anta scorrevole dell’armadio, il secondo cassetto del comò che stride da quando l’abbiamo comprato, grucce che urtano, fruscii di stoffa. Ed è come se vedessi un susseguirsi di istantanee. Dopo un po’ il tuo profumo si diffonde per la casa. Mi giro, so che stai sulla porta, mi guardi di nuovo, ti allontani; di nuovo i tacchi, li conto, e la porta sbatte. Guardo l’orologio, è tardi, mi metto a letto, osservo il soffitto: quella sottile crepa si allunga da quando abbiamo comprato casa.

Mi giro sul fianco; domani è un altro giorno.

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…sei tu

…sei tu musa del mare con il tuo dolcissimo e ammaliante canto che mi tenti. Anche da lontano sento il tuo richiamo…

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La fine

Le masse d’aria cambiarono il loro corso senza preavviso e un lungo silenzio ammantò il mondo. Una luce violacea si diffuse nel cielo a est, attraversando rapidamente l’oriente e diffondendosi, anticipatamente, nella zona d’ombra a occidente. Fiocchi di neve iniziarono a cadere su Timbuctu dalle prime luci dell’alba. Alcuni Tuareg in partenza per il Sahara guardarono il cielo smarriti, cercando di capire cosa fosse quella strana poltiglia bianca. Il contrasto tra il rosso del deserto e il bianco della neve creava una frattura visiva bizzarra, poi la tormenta di neve copri tutto in una morte bianca.

A cinquemila miglia di distanza, su una piattaforma petrolifera, alcuni uomini stavano tirando dei cavi di tensione; improvvisamente un rumore assordante li fece girare, ma non ebbero il tempo di meravigliarsi. L’onda aveva superato di gran lunga l’altezza della struttura in metallo e della piattaforma rimasero solo alcuni monconi spezzati.

Le calotte polari sprofondarono rapidamente nell’oceano e inondarono le coste del mare del nord distruggendo i villaggi dei pescatori.

L’Antartide venne spogliata del suo manto bianco nel giro di poche ore, esponendo all’aria una geologia nascosta da ere di ghiaccio.

Incendi incomprensibili devastarono la tundra Siberiana creando colonne di fumo gigantesche che invasero il cielo oscurandolo completamente.

Le città europee furono colpite da tremende scosse telluriche che aprirono canyon enormi nel suolo inghiottendo i grandi monumenti del vecchio continente.

I ghiacciai perenni dell’Himalaya si sciolsero con la rapidità di un cubetto di ghiaccio al sole d’agosto, formando fiumi inarrestabili che allagarono gli altopiani del Nepal travolgendo Kathmandu.

Tempeste di grandine si abbatterono nelle zone desertiche del Gobi, mentre ad appena seicento chilometri, nella città di Pechino, la temperatura superò i quaranta gradi all’ombra.

Nelle zone tropicali gli alisei invertirono la direzione aumentando d’intensità. Cosicché venti impetuosi devastarono gli arcipelaghi sradicando la vegetazione e inondando i centri abitati.

Onde gigantesche attraversarono gli oceani come treni impazziti, sommergendo tutto quello che incontravano sul loro cammino. Superpetroliere di cinquecentomila tonnellate ruotavano su se stesse, sopraffatte da frangenti alti come montagne.

Gli aerei iniziarono a cadere giù come mosche dopo una spruzzata d’insetticida, schiantandosi al suolo.

Nelle grandi metropoli del nord America i grattacieli implosero riducendosi in cumuli di cemento sottile che saturò l’aria di una polvere mortale.

L’umanità fu sopraffatta: nessun essere vivente sopravvisse. E la Terra finì.

Le luci s’accesero senza neanche aspettare i titoli di coda, la sala era quasi vuota: era l’ultimo spettacolo e c’erano poche anime. L’uomo rimase ancora seduto qualche secondo osservando lo schermo bianco. Poi andò via.

Il giorno dopo la cassiera del cinema leggendo il giornale nella cronaca interna, fu colpita da un articolo che riportava il suicidio di un uomo sparatosi in bocca con in mano un biglietto del cinema.

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Sogni nell’aria

Lo sai come si fa a esorcizzare le paure? Nemmeno io lo so, che di paure ne ho avute tante, e non credere che adesso non ne abbia.  A volte tutto sembra così aleatorio, così incerto, che par d’esser sempre vissuto in questo modo: in questo limbo che m’avvolge cullandomi dolcemente col suono della tua voce. Ti spio da lontano, cercando di carpire i tuoi respiri, di rubarti qualche sguardo distratto, mentre le tue mani dipingono sogni nell’aria, e i tuoi piedi accarezzano il suolo intimidito dai tuoi passi. Sei avvolta nei tuoi pensieri; ammantata da flussi mentali invalicabili. A volte dai l’impressione di cercare la luce dove c’è il buio e non ti accorgi che sei tu la luce; innaffi terreno sterile trascurando i germogli che crescono dentro di te. Ti graffi la mente con vane illusioni, senza anestetizzare le tue paure; e dai l’impressione che di paure non ne hai. Non è così: respingi la mano, ma ti aggrappi allo sguardo. Celi le tue paure dietro mura di sicurezze, circondate da fossati di disinvoltura. Senza accorgerti che le mura sono trasparenti e i fossati piccole depressioni nel terreno.

Vorrei tanto toccarti, per essere certo che esisti veramente. Ma so che un giorno volerai via, e non voglio che tu voli via.

Per il momento lascio i miei pensieri al sole, sperando che mi si asciughino le lacrime.

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Viso di stoffa

Lo so dove sei andata. Ci sei andata altre volte, ma non serve; cerchi di alleviare i tuoi rimorsi chiudendoti in una stanza spoglia di un motel, coperta solo da un misero accappatoio che sembra un saio. Ti vedo, sul bordo del letto a ritoccarti il viso col portacipria di Swarovsky; è la tua natura, la tua essenza, la tua contraddizione. Io so cos’hai dentro, lo percepisco anche a distanza; ti nascondi a te stessa, ti ammanti di finto fatalismo, di responsabilità indotte. Esci da casa sorridendo a tutti e salutandoli con cordialità mentre i tuoi occhi brillano di un’altra luce. C’è un conflitto enorme dentro di te, complicato dalla tua presunzione di poter gestire tutti con il tuo viso di stoffa. Lo hai lavato troppe volte ormai: il tessuto si sgrana, devi indossarne un altro. Puoi comprarne uno nuovo, ma hanno messo i saldi. Saresti uguale agli altri.

Sei misera, ma non sei degna di pietà. La tua anima si perderà, continuerà a vagare finché il tempo cesserà. Sarà la tua nemesi. Mi hai reso schiavo della tua bellezza manipolando la mia mente come un pezzo d’argilla. Hai costruito un vaso e poi l’hai fracassato, riducendolo in mille pezzi. Li sto ancora raccogliendo. Molti sono inutilizzabili. A che serve ricostruirlo…

Neanche lui riesce a essere più misero di te. Lui che cerca di soddisfare il tuo corpo che reclama sesso mentre la tua mente ci gioca; mentre lo soggioghi con le tue malìe. Lui che è convinto di condurre il gioco. Che uomo stupido… Ti sei procurata uno stallone da monta, ma non sa correre: non è di razza. Con lui ti è più facile; la sua intelligenza è inversamente proporzionale alle sue prestazioni fisiche, mi dicesti. E io cercando di fare l’indifferente ti chiesi di cambiarti il vestito, quella sera del ricevimento. Non è importante cosa indossi, ma come lo indossi, dicesti.

Sì, vinci anche in questo: l’indumento non ti veste, sei tu che vesti lui. Nessun uomo ti veste, nessuno uomo ti vestirà mai.

Lui sarà arrivato ormai, starete a letto iniziando la vostra danza di guerra. Anche questo me l’hai detto tu. I preliminari sono come una danza di guerra intorno a un grande falò di passioni. Ricordi? Eravamo in macchina. Parlavi e il falò si rifletteva dai tuoi occhi, mentre dentro di me un rogo bruciava inarrestabile. Non risposi: avevo paura che smettessi di raccontarmi di voi due. Dopo un po’ passasti ai particolari. Eri precisa nelle tue descrizioni, come se ne stessi parlando con un’amica. Sembravi posseduta da una strana suggestione, ma non del tutto. Mi spiavi con la coda dell’occhio cercando di capire se mi stessi eccitando. Un gioco malefico il tuo. Non contenta, la tua mano iniziò ad accarezzarmi l’inguine. Fermati! Mi dicesti. Accostai e mentre osservavo il traffico notturno saziasti la tua sete nutrendoti della mia sostanza. Quella notte a letto ti cercai. Non adesso, mi dicesti girandoti dall’altro lato.

I giorni passavano sulle nostre vite, c’incontravamo sempre meno in casa, tranne la mattina. Cercavo di non pensarci, mi dicevo che presto sarebbe cambiato. Una sera, un collega di lavoro mi portò in un bar; erano giorni che insisteva. Era un bar di single; sagome scure; uomini e donne disillusi. Lei era simpatica; appena uscita da una storia sgradevole, ed era piena di grandi sogni. Non ricordo come, ma mi svegliai nel suo letto la mattina successiva. C’era un biglietto che mi invitava a rilassarmi come se fossi stato a casa mia e di farmi il caffè. Quando penso a lei mi tornano in mente solo i suoi occhi, occhi limpidi come acqua che scorre.

Dove sei stato stanotte? Mi chiedesti. E io per vendicarmi ti raccontai tutta la verità, tranne i particolari che m’inventai di sana pianta. Il tuo viso s’infiammò, una strana luce si formò nei tuoi occhi da gatta selvatica. Ti avvicinasti e strusciandoti cominciasti a gemere. Lo facemmo lì sulla sedia e poi continuammo nel letto fino a notte inoltrata. Non voglio dividerti con un’altra, mi dicesti alla fine. Andai in bagno e rimasi un po’ a guardarmi nello specchio e quando tornai stavi già dormendo. Era tornato tutto come prima.

Ritornai in quel bar, non so perché, ma ci tornai. Era presto, c’erano solo un paio di persone appoggiate sul lungo bancone. Chiesi al barista se l’avesse vista, ma non ricordava di chi parlassi. Fermai un taxi e mi feci portare a casa sua. Non ricordavo l’indirizzo, ma la zona sì. Una signora mi disse che era partita per l’Africa. Stava realizzando uno dei suoi sogni allora. Passai la notte girando senza meta per la città. Tornai a casa sperando di suscitare in te altro interesse, ma nessuna luce si formò più in quei tuoi occhi da gatta selvatica. Hai passato di nuovo la notte fuori? Mi domandasti, dandomi un bacio sulla guancia. E senza attendere risposta chiudesti la porta alle tue spalle.

Perché non smetti di vederlo, ti ho chiesto stamattina in cucina. I tuoi occhi mi guardavano da sopra il bordo della tazza del tè. Ti prometto che da domani non lo rivedrò più. Da domani.

Sto cadendo dal dodicesimo piano chiedendomi se lo rivedrai anche domani.

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Un…

Un candido silenzio ammanta questa parte del mondo, come una nivea serenità, un chiaro oblio, un sonno immacolato.

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Parole…

…parole che sgorgano dalla bocca, straripano sulle labbra e scorrono lungo il mento. Lente sillabe che gocciolano sopra al cuore.

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Mari…

Mari lontani

Riflessi indistinti

Ciechi bagliori

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Sono…

Sono fermo su una sponda e osservo il fluire del tempo.

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