Sono davanti a un foglio bianco, sforzandomi di vedere quello che non c’è, cercando di descrivere e trasformare in segni quello che penso, quello che si materializza nella mia mente. A volte lo guardo, gli guardo dentro, per interi minuti, guardo il suo biancore accecante, i suoi contorni, la sua geometria, la sua fredda immobilità, la sua gelida fissità, guardo la sua bidimensionalità, la sua algènte immutabilità. Poi comincio a far passare il mouse sulla barra degli strumenti e sulle funzioni: lo stile, il carattere, la dimensione, colore, sfondo… ”riscaldo le candelette”, prendo tempo. Rovisto nella mia testa, esploro, cerco, frugo; si affacciano le prime porzioni d’ immagini, i primi flash. Sono pezzi di ricordi, a volte in bianco e nero, a volte a colori, senza una forma definita, che cerco di fissare, di imprimere, sviluppare. Si delineano, si sovrappongono si trasformano, vanno via, ritornano. Cerco di dare un ordine al caos, cerco un entropia mentale. Prendo questi pezzi di puzzle e provo a unirli, selezionandoli, dividendoli, scartandone alcuni, aggiungendone altri. M’immergo dentro di loro, ci nuoto, mi lascio trasportare galleggiandoci sopra; attraversando vortici indefiniti, gorghi inspiegabili, supero colline di ricordi, altopiani di concetti, scalo montagne di significati, cordigliere di pensieri. All’inizio è un ricordo, lontano, remoto, vago, una storia , un racconto, una sensazione, una scena di un film, un libro letto anni addietro, o solo un immagine. Poi inizio a dargli una forma, un’ossatura, un corpo. Lo animo, gli dò vita, lo nutro, lo disseto, lo vesto di parole, di frasi, di locuzioni. oppure lo svesto, lo spoglio, lo disadorno, finché non ricresce e diventa adulto… pronto e chiaro come un mattino d’alta quota.
Il problema è trasformarlo in prosa.